Viaggio di ritorno

Maria Luisa Busti

 

Il cane si addentrava frenetico nel sottobosco, poi balzava di lato e all'indietro, con grande tramestio di foglie e rametti spezzati, voltandosi spesso a controllare che l'uomo lo seguisse, per poi tuffarsi ancora nei cespugli, instancabile e totalmente felice.

Erano soliti trascorrere così- l'uomo e il cane- lunghe ore di luce nel silenzio della campagna, accorgendosi che si era fatta sera solo dal calare delle ombre e dall'aria più pungente.

L'uomo allora dava un fischio e tornava lentamente sui suoi passi, raccogliendo rami e sterpi per il fuoco, affiancato dal cane, stanchi entrambi e desiderosi di una scodella di zuppa e del fuoco nel camino.

Quella sera l'oscurità era da tempo calata quando arrivarono alla cascina abbandonata che tutti e due consideravano casa. Entrarono e l'uomo ravvivò subito le braci nel camino e alimentò il fuoco; si mise poi a raccogliere i pochi oggetti sparsi intorno e a infilarli nelle tasche di un logoro giaccone, infine si sedette su un ceppo accanto al fuoco, unica fonte di luce e di calore nella stanza. Rigirò tra le mani una tavoletta di legno levigato con pazienza, accostandola più volte alla luce delle fiamme per meglio esaminarla e con un temperino terminò di inciderla, soffiò accuratamente i trucioli, la lisciò, la accarezzò e infine la avvolse in un fazzoletto a riquadri, non senza prima averla mostrata al cane, accucciato ai suoi piedi, che le diede una annusata compiacente. Si sdraiò infine su un mucchio di paglia, scaldandosi al corpo del cane accanto a lui e al residuo tepore del camino, e si lasciò avvolgere dai sussurri della notte.

Il mattino seguente, alle prime luci, indossò il giaccone rigonfio dei suoi averi, diede un'ultima occhiata intorno, esaminò ancora una volta la tavoletta di legno- quasi un quadretto- decise che andava bene e la riavvolse con cura.

 

Preceduto dal cane si incamminò nella luce lattiginosa dell'alba sul sentiero che passava dietro le stalle della cascina abbandonata, si addentrava  nel bosco di carpini, costeggiava il prato grande e arrivava al fiume, dove terminava, come inghiottito dall'acqua tumultuosa. Talvolta l'uomo si era seduto su quella riva combattendo col desiderio di arrendersi e di lasciarsi trascinare dalla corrente fino alle porte dell'inferno, ma l'aveva sempre fermato il pensiero del cane, che l'avrebbe certo seguito tuffandosi nell'acqua, dopo averlo rincorso abbaiando dalla riva, senza capire, ma deciso a non lasciarlo andare. E così, lui che aveva abbandonato tutto dietro di sé, ora non riusciva a staccarsi da quel trovatello senza famiglia, col quale spartiva da tempo una assoluta povertà.

Quella mattina però non si fermò sulla sponda del fiume, dove il cane- che sempre correva avanti- già lo aspettava. Tirò dritto e affrontò la strada asfaltata che portava al paese. Attraversò il ponte e con ogni passo diceva addio alla campagna silenziosa che gli aveva aperto le sue braccia materne, alla cascina abbandonata, che aveva tenuto il vento e il buio lontano da lui, al bosco di carpini, tacito asilo per le vite nascoste come la sua, note solo agli occhi di Dio, alle stalle abbandonate, in cui aveva trovato della buona paglia per il suo giaciglio. A tutto ciò disse addio, un passo dopo l'altro, fissando la punta screpolata dei suoi scarponi. Guardò il cielo che schiariva un altro giorno, un altro passo- e si allontanò dal fiume camminando adagio. La strada non era lunga, ma le sue forze erano poche, così si fermava spesso a prendere fiato, in punti appartati e scelti con cura per la loro invisibilità. Aveva imparato la scienza degli addii, ma non quella

In quegli angoli defilati usava sedersi col cane ai suoi piedi e ammaestrarlo.

" Vedi" gli diceva " devi imparare anche tu, come tutti, a dire addio, come si fa nelle stazioni, ad esempio, dove ci si bacia, ci si stringe la mano, si versa qualche lacrima e poi...al fischio del treno, addio, c'è chi parte, c'è chi resta...Hai capito cos'è un addio?

Il cane lo fissava con occhi umidi e adoranti, divideva con lui una frugale colazione, poi si rimettevano in cammino.

Quel giorno le soste furono più lunghe e più frequenti: l'uomo aveva l'abitudine di salutare per bene tutti i luoghi che si lasciava alle spalle e dai quali aveva ricevuto, pur nella loro diversità, una identica lezione, e cioè che l'inquietudine del vivere ti tormenta e non si placa nemmeno quando cambi il cielo sopra di te. Questa era l'essenziale verità che aveva appreso dopo una vita  in giro per il mondo, e adesso era tempo di tornare, dopo avere riposto in un angolo appartato del cuore il mondo armonioso che aveva cercato invano in ogni luogo dove aveva vissuto, e che esisteva forse solo nei suoi sogni giovanili. Non aveva più senso continuare a inseguire ciò che non vuole lasciarsi afferrare; l'uomo poneva fine alla sua ricerca, senza per questo sentirsi sconfitto: aveva vissuto a modo suo, e tanto bastava.Adesso però era tempo di tornare perchè aveva fame, una gran fame: tutto il suo essere smaniava per la fame di parole che l'aveva d'un tratto assalito. Voleva, più di ogni cosa, risentire la dolce parlata del suo paese, ascoltare -e comprendere- le parole della gente per strada, immergersi nel brusio della vita che sale dalle bancarelle nelle fiere, dalle piazze affollate, dai caffé aperti sui viali.

Dopo tanti suoni incomprensibili e stranieri, dopo tante parole faticose da capire e pronunciare, aveva davvero fame della sua lingua materna, delle chiacchere senza pretese che accompagnano, come una sommessa colonna sonora, ogni giorno della nostra vita.

Per questo tornava a casa. Poteva continuare a vivere di espedienti, dormendo dove capitava e mangiando quando poteva, ma non poteva più stare lontano dal suo idioma natale, una musica di parole che l'aveva sempre consolato e che da anni ormai poteva ascoltare solo dalla sua stessa voce.

L'uomo si lasciò alle spalle la campagna e raggiunse le prime case del paese che il sole era già alto.

Passò accanto ai caffè pieni di gente e sognò una bella tazza di the bollente e profumato di vodka, ma tirò dritto, come sempre. Non osava entrare nei locali affollati, e poi possedeva solo poche, preziose, monete.Mendicare gli ripugnava, faceva qualche occasionale lavoro, non appena poteva,oppure rubacchiava qua e là cibo e piccoli oggetti indispensabili, senza essere notato.

Quasi sempre.

Toccò il fazzoletto a quadri nella tasca e ripensò alla catena di avvenimenti a cui il fazzoletto aveva dato l'avvio.

Quel giorno aveva sottratto da una bancarella un coltellino svizzero, chiudendolo nel suo pugno e mettendolo al sicuro all'interno della tasca. Pur vivendo al di fuori di ogni consesso civile, l'uomo aveva delle regole e una era questa: non rubare mai più di una cosa nello stesso posto.

Ma quel giorno l'aveva infranta: passando accanto ad un mucchio coloratissimo di fazzoletti da tasca non aveva resistito alla tentazione di prendersene uno, per sostituire il suo, ormai completamente sbrindellato. Così, aveva sfilato da sotto il mucchio un bel fazzoletto coi suoi colori preferiti, azzurro e crema intrecciati,e se lo era fatto scivolare in tasca senza che nessuno se ne avvedesse.

O perlomeno così credeva.

Quando si voltò per allontanarsi incrociò, fisso su di , lo sguardo di una donna che dalla bancarella dirimpetto pareva rimasta immobile a metà di un gesto. Lo fissava in silenzio. Davanti a lei, appoggiato su un bancone da salumiere, uno sfilatino tagliato nel senso della lunghezza, tra le dita una fetta di prosciutto sospesa a metà strada. Lui era rimasto immobile, in attesa del grido d'allarme con cui l'avrebbe smascherato. Sudava copiosamente, così estrasse dalla tasca il suo fazzoletto, quello sbrindellato, e si asciugò il collo e la fronte, senza osare allontanarsi.

La donna terminò di imbottire lo sfilatino, lo chiuse, lo posò davanti a , gli fece un cenno col mento e aspettò.

L'uomo, sconcertato, non sapeva cosa fare.

La donna era alta sopra di lui, dal momento che si trovava all'interno di un furgoncino, un veicolo molto in uso presso i salumieri dei mercati, era sola dietro il banco e aveva un'aria efficiente e sbrigativa.

Di nuovo gli fece un cenno d'invito, indicò il panino, indicò l'uomo e gli voltò le spalle, mettendosi a sistemare delle scatole sui ripiani dietro di .

L'uomo capì che si era voltata per non metterlo in imbarazzo, si accostò al bancone, prese lo sfilatino e si allontanò senza osare mangiarlo.

Non visto, rimase a guardarla da lontano: continuava a servire i suoi clienti, cordiale e affaccendata, una donna di mezza età, solida e ben in carne che l'aveva visto fare una cosa sbagliata e non l'aveva accusato, ma gli aveva offerto spontaneamente un piccolo aiuto.

Tornato nel suo rifugio l'uomo allineò davanti a i tesori della giornata: il coltellino svizzero, col quale avrebbe potuto tagliare alla base, delicatamente, i funghi mangerecci, senza svellerli brutalmente dal terreno, il fazzoletto da tasca, e infine il panino, che mangiò il più lentamente possibile, a piccoli bocconi golosi.

La settimana successiva tornò al mercato, e rimase nascosto tra la folla a guardare la salumiera bene in carne che, come una dea dell'abbondanza, porgeva ai clienti cotechini e prosciutti dall'alto del suo bancone. Gli parve che cercasse qualcuno tra la folla e si diede dello stupido pensando che cercasse lui. Ma quando la gente si diradò e lei lo vide, gli sorrise e tolse da sotto un piatto uno sfilatino già pronto, ancora più grande del primo, ancora più imbottito, e lo mise in bella vista dinanzi a lui, facendogli il solito gesto d'invito.

Da allora, ogni giorno di mercato, l'uomo trovò ad aspettarlo succulenti panini, con farciture sempre abbondanti e gustose, e inoltre anche un sacchetto di cibarie da portar via e consumare nei giorni seguenti. Tra lui e la donna non venne scambiata mai una parola, ma solo sorrisi, via via più riconoscenti e amichevoli.

Ed ora l'uomo andava a prendere congedo dalla sua benefattrice, che oltre a sfamarlo, gli aveva impartito la seconda importante lezione, e cioè che, se è vero che la fatica del vivere ti sta addosso e non ti abbandona , è altrettanto vero che gesti di bontà piccoli e inaspettati ti aiutano a portarne il peso, rendendolo più lieve.

Prima di addentrarsi nella piazza affollata l'uomo si sedette su una panchina e guardò la gente che gli passava accanto con gli occhi di chi sta per dirle addio. Osservò le famiglie dirette al mercato in gruppetti chiassosi, uomini e donne affaccendati che raramente si allontanavano dal luogo natale e vi trascorrevano per intero gli anni a loro destinati. Per , invece, aveva voluto una vita errante, un cielo nuovo ad ogni stagione e compagni di viaggio ogni volta diversi. Del resto, siamo tutti in viaggio, pensava l'uomo: che altro è infatti vivere se non viaggiare a occhi chiusi nel tempo, a malapena consci di un breve passato alle nostre spalle, in balia del destino come fili di paglia nella corrente? Ma poi, tra i compagni di viaggio che la sorte ti mette accanto, ecco l'incontro inatteso, il gesto inaspettato, e tu non ti senti più come un tamerisco portato dal vento della steppa, ma nel tuo cuore il cuore di un altro affonda le sue radici, inestirpabili, ed esse resistono al tempo e al destino, legandoci tenacemente alla vita.

Arrivato al mercato,  l'uomo si avvicinò al camioncino che ben conosceva: lo sfilatino e il sacchetto di provviste erano come al solito già preparati. Egli porse alla donna un involto, alzando le braccia per superare il bancone che li divideva. La donna si chinò verso di lui, sorpresa, ed esitò nel prendere l'oggetto che egli le porgeva. L'uomo allora posò il suo dono sul banco, ritirò le provviste, accennò un inchino, come sempre faceva, e si allontanò seguito dal cane. La donna, titubante, aprì l'involto e osservò con meraviglia un quadretto di legno: tra arabeschi e motivi floreali era incisa una scritta, indecifrabile. Benchè non capisse le parole, l'oggetto le piacque molto e pensò alla maniera in cui dirlo all'uomo, quando l'avrebbe rivisto.

Ma l'uomo non tornò più e la donna comprese che quello era un regalo d'addio. Lo osservò più volte, affascinata  dagli arabeschi e dalle decorazioni, mostrò la scritta a figli e nipoti che avevano studiato, ma essa resistette ad ogni tentativo di traduzione. Così, come si fa con un oggetto bello da vedere e a cui si è affezionati, se lo portò appresso ad ogni mercato, sistemato su un ripiano accanto al registratore di cassa, trovandolo, ogni volta che lo guardava, semplice ed elegante nello stesso tempo. La donna non era incline a sentimentalismi, aveva anzi una solida presa sulla vita e si lasciava guidare in ogni sua azione dal principio della concretezza e dell'operosità, ma quando ripensava a quell'uomo male in arnese e tuttavia pieno di dignità, non poteva fare a meno di fantasticare su di lui, e mal sopportava l'oscurità in cui rimaneva il dono che le aveva fatto.

Del tempo passò.

Un giorno, mentre serviva un cliente mai visto prima d'allora, probabilmente un manovale del vicino cantiere, il suo cuore diede un balzo: gli occhi dell'uomo avevano fissato il quadretto e si erano spalancati per lo stupore, mentre un gran sorriso ringiovaniva il suo volto segnato dalla fatica.

Certo che sapeva leggere quella scritta, era nella sua lingua, nel suo alfabeto; la comprendeva ma non gliela sapeva tradurre.

Alla delusione di lei, l'uomo le fece cenno di attendere e si allontanò per tornare poco dopo con un ragazzo più giovane.Anche a lui si inumidirono gli occhi mentre leggeva; le spiegò che le parole incise altro non erano che versi di una poesia, che egli subito tradusse e declamò più volte, fino a che la donna non li ebbe ben fissi nella mente, per non scordarli mai più:

 

 

 

Ho imparato la scienza degli addii

e a cantare davvero

in pienezza di cuore

Ho imparato la scienza degli addii

e di tutti voi

compagni di viaggio

in segreto m'innamorai.(1)

 

 

 

(1) versi di Osip Mandel'stam liberamente rielaborati