Matteo Gallenca
Sognando
Parigi
Lo
slargo si presenta irregolare ed i numerosi dossi sono attraversati dagli scoli
delle case addossate le une alle altre, un asse o una
pietra permettono a chi cammina di attraversarli.
La strada
è in terra battuta e come le altre degrada,
attraversando i numerosi gruppi di case, verso un grande avvallamento oltre i
binari della ferrovia.
Accanto
agli scoli, pulcini e galline razzolano, cercando tra i liquami ed i rifiuti
qualche cosa da beccare. I rifiuti sono ovunque: Anjama
è una città sporca, accanto ai pochi contenitori della spazzatura mai svuotati
e debordanti di rifiuti sparsi intorno; capre, anitre
e galline sono alla ricerca di cibo e disperdono ancor più quel putridume.
Passando
accanto alla moschea, mi ero fatto largo tra un gruppo di capre che annusavano
per terra, l’erba non c’era e sembravano fuori posto tanto che si spintonavano
senza sapere dove andare.
La
moschea è una delle tante che ci sono ad Anjama, e
dai minareti gli altoparlanti amplificano i versi del Corano che i muezzin
invocano di giorno e di notte.
Nello
slargo non c’è un fazzoletto di terra regolare, ma nonostante ciò quattro
ragazzini stanno giocando alle biglie. Mi fermo a guardarli,
sono bravi, e sfruttando i rilievi e le cunette riescono a colpirle; uno di
loro alza il viso e mi guarda; ha occhi neri, vivaci, e io gli chiedo come si
chiama. “Abdullai” risponde e si rimette a
giocare; li osservo ancora e poi mi allontano.
Poco
oltre, alcuni bambini scalzi e seminudi si rincorrono e non
si accorgono del lezzo che, nell’aria calda, impregna con poca discrezione le
narici. Proseguo e l’odore delle banane fritte e della manioca in fermentazione
che giunge dal vicino mercato, si mescola e si confonde con l’odore degli scoli
rendendo il caldo afoso più deprimente.
Risalgo
verso la strada principale, l’unica asfaltata, e vengo
attratto dalle bancarelle e dai colori vivaci degli abiti delle donne. Il nero
della pelle risalta sulle vesti colorate e il portamento che hanno, data
l’abitudine a portare sul capo ogni cosa, le rende altere.
Nel
peregrinare tra le viuzze mi ritrovo nuovamente dove i ragazzi continuano a
giocare alle biglie e mi fermo perché Abdullai mi ha
sorriso. Gli chiedo se va a scuola e mi risponde dicendomi che al mattino ci va e il pomeriggio è a casa e si ritrova con
gli amici a giocare.
Penso
alle scuole di Anjama e alle
classi che arrivano ad avere anche 50 alunni, al livello di insegnamento, data
la situazione in cui lo stato si ritrova dopo anni di guerra.
Le
classi sono numerose perché numerose sono le famiglie
con tanti bambini.
Non ci
sono turisti ad Anjama e girando per le strade, mi
accorgo di essere osservato; a parte la pelle bianca, anche l’abbigliamento da
europeo contrasta con le lunghe vesti portate dagli uomini, specie ora che
attraverso la zona mussulmana. incrocio donne con il
volto coperto; il caldo fa sudare copiosamente e penso ai visi delle donne
imprigionati dietro alla stoffa e mi chiedo come fanno a respirare; saranno
anche abituate… ma, mi viene da ansimare e decido di andare a bere una birra.
Una
scritta:”Dance” mi fa pensare che la posso trovare e
decido di tentare.
La
porta in ferro è semiaperta e il corridoio che
intravedo è basso e semibuio; mi inoltro e, fatti pochi passi, una porta aperta
mi invita ad entrare. Il contrasto tra il sole accecante della strada e
l’oscurità della sala è compensato da due neon azzurri
che illuminano un bancone con alcune bottiglie su un ripiano. Mi abituo
lentamente alla poca luce aiutato da un televisore
acceso in fondo al locale. Alcuni divanetti sono sistemati contro una parete e
mi siedo rinfrescato dalle pale di un ventilatore che
pende dal soffitto e girano stancamente.
Chiedo
una birra e osservo gli avventori, un giovane davanti al televisore e una
ragazza che sta fumando, anche lei attenta a quanto avviene sullo schermo.
Mentre
comincio a bere la ragazza si alza e si avvicina: “Bon
jour” mi saluta, rispondo al saluto e le faccio cenno
di sedersi. Le offro da bere e la osservo; ha un discreto fisico imprigionato
in jeans attillati e una camicetta scollata che lascia intravedere le spalline
del reggiseno. Nella scollatura una collana con un amuleto chiaro risalta sul
nero della pelle.
È alta e
giovane, non ha un bel viso ma sorride volentieri; le
chiedo come si chiama: “Marie Lauret”
risponde e a mia volta le dico il mio nome. Le chiedo che cosa fa, e lei
risponde che è sempre nel locale; sono seccato dal fatto di saper parlare poco
il francese ma cerco lo stesso di farmi capire e
chiedo perché non c’è nessuno. Dalla sua risposta capisco che è un’ora morta…
chi frequenta il locale viene di sera per ballare e cercare compagnia.
Mentre
cerco di imbastire delle domande lei continua a
sorridere perché in effetti anche lei capisce poco quello che cerco di
esprimere, poi, avendo finito la birra ed esaurito il mio vocabolario mi alzo e
la saluto.
Il
sabato successivo nel mio bighellonare mi ritrovo a passare davanti alla
moschea e nello slargo ritrovo i ragazzi nuovamente intenti a giocare. Mi
sembrano gli stessi e rivedendo Abdullai lo saluto; chiedo chi vince e lui mi indica un ragazzo dalla
pelle scurissima che si chiama “Abyn” e mi dice che è
il più bravo. Poi, come a risvegliare il suo malcelato orgoglio, prosegue:
“Quando Abyn non c’è, però il più bravo sono io”…
sorrido. Li saluto e mi perdo nelle stradine, poi decido di tornare nel locale
con la scritta “Dance”. Solite luci… mi abituo nuovamente all’oscurità e mi ritrovo seduto
con una birra gelata tra le mani. La ragazza che avevo
conosciuto mi viene incontro sorridente e mi saluta sedendosi accanto a
me. Penso al suo nome “Marie”… ma non mi ricordo
altro, lei me lo ripete e mi chiede come va.
Alludo
al locale sempre vuoto e chiedo cosa fa tutto il giorno e dove vive. Lei parla
volentieri e, da quanto capisco, nel retro c’è una camera che divide con altre
cinque ragazze, ma in questo momento non ci sono tutte perché due sono
ammalate.
Mi
faccio ripetere che cosa fa e tranquillamente mi dice
che balla ed intrattiene “garçons”… capisco che fa la
prostituta.
Parla
del suo villaggio nel nord, del figlio che ha lasciato con suo padre quando ha deciso di venire ad Anjama
e dei sette anni che ormai ha trascorso qui… non ho capito se ha 25 o 27 anni.
Tra una
domanda e una risposta ci sono lunghi silenzi… chiedo se non ha
pensato di fare un lavoro normale… lei sorride, capisco che la risposta
è scontata, come tanti altri venuti dal nord non c’è stata possibilità di
trovare lavoro e, se a una situazione già precaria aggiungiamo la guerra…
annuisco.
Una
città senza industrie, senza turismo e presa d’assalto da nuovi immigrati
fuggiti dal nord non offre molto… tento la carta della possibilità di cercare
lavoro nella capitale; lei sorride e ripeto la frase perché non so se ha capito
quello che intendevo dire ma lei tace, poi, dopo una
lunga pausa risponde: “Penso che ad Abidjan sia la stessa cosa, ma… -peut-être-”. Si avvicina ancor di più a me, come a farmi
una confidenza, e sospirando mi dice sottovoce: “Il mio sogno è quello di
andare a Parigi”. La guardo e sono io a
sorridere e a dire: “Le voyage est très cher et la vie n’est pas comme
ici”…annuisce ma insiste: “Mon rêve c’est aller vivre a Paris”.
Restiamo
un po’ in silenzio, chiedo dei clienti e dice che sono sempre meno, c’è povertà :”Les garçons
n’ont pas d’argent”.
Chiedo
come tirano avanti lei e le altre ragazze e mi
risponde che a turno cucinano “quando ci sono i franchi” ma, visto che ieri non
ha avuto clienti, non ha mangiato… spera in questa sera.
Le offro
dei franchi che rifiuta, ma io insisto perché li prenda e la saluto.
In
strada penso al suo desiderio di andare a Parigi e alla triste realtà che
purtroppo è un sogno e sogno resterà.
Devo
andare a fare dei lavori presso un centro per andicappati che le suore di don
Orione hanno aperto presso la capitale e lascio Anjama.
Ormai
non dovrei più sorprendermi nel vedere come il destino
colpisca persone già sfortunate per povertà e miseria, accanendosi sino
a minarne l’integrità fisica riducendo in alcuni le gambe a semplici monconi e
in altre storpiandone il corpo in modo da lasciarle inabili per tutta la vita.
Sono
rifiutati da famiglia e società, così le suore si prendono cura
di loro.
In
mezzo a tanta sofferenza c’è Jamal: è un bambino
mussulmano sanissimo che le suore hanno trovato per strada; lo hanno accolto al
centro e lo fanno studiare. Ho chiesto a suor Noemi se è logico tenere un bimbo
vivace e sveglio assieme agli altri; egli pieno di vitalità con la voglia di
giocare e di correre, costretto suo malgrado a
condividere la triste realtà del centro. Ha allargato le braccia e mi ha
risposto: “Debbo lasciarlo in mezzo alla strada?”.
Ho
scoperto che a Jamal piace il pallone, e allora
quando non lavoro gioco con lui. Mi sono ripromesso di non guardare gli altri ragazzi mentre gioco con Jamal
perché quegli sguardi senza sorriso e senza pianto sono come lame di coltello
che mi entrano nelle viscere fino a svuotarmi, quasi fosse colpa mia se loro
sono nati con dei problemi fisici.
Sono
tornato ad Anjama a trascorrere gli ultimi giorni
prima di partire.
Bere
una birra è l’unico piacere che mi permetto e torno nuovamente in quel locale.
Ho
scoperto che è il “Pub
Bevo la
birra e mi ritrovo nuovamente in strada diretto verso
la grande moschea.
In un
negozietto ho visto delle biglie e le compro; se i ragazzi stanno giocando
gliele regalo.
Trovo Abdullai contento perché ha vinto e lo è doppiamente
quando ha tra le mani parte delle biglie che ho portato e ho diviso con
gli altri. Chiedo se ogni giorno sono sempre qui a giocare e mi dice di sì
perché diversamente non saprebbero dove andare. Escono di casa e si ritrovano
per strada e il tempo lo trascorrono così.
Chiedo
della scuola, se gli piace, se fa i compiti, e capisco che come ogni altro
ragazzo ci va perché ci deve andare, di compiti da
fare ne ha pochi e divertimenti non ce ne sono. Resto un attimo in silenzio poi
gli domando che cosa gli piacerebbe fare da grande, e
questa volta è lui che resta pensieroso, poi alza le spalle e riprende a
giocare.
Li
saluto, mentre ripercorro le strette stradine ripenso a Marie
Lauret, al suo sorriso scanzonato, al suo sogno di andare a Parigi; poi rivedo lo sguardo
interrogativo di Abdullai il quale, pur essendo un
ragazzo, sogni non ne ha.