Pierluigi Mondani
La
castità di Samuele
Toc
toc…due colpi all’uscio. Leggeri, come se a bussare fosse stata la mano di un bambino.
Mamma Linda, inforcati gli occhiali, aveva appena iniziato a rammendare una
vecchia federa. Chi poteva venirla a cercare a quell’ora di sera? Nell’alzarsi
per andare ad aprire, non fece caso alle ginocchia che dolevano. Trascinandosi
a piccoli passi e appoggiandosi al tavolo come fosse
un bastone, si diresse alla porta. Il ritmo lento delle pantofole che
strisciavano sul pavimento contrastava con i battiti del cuore. I tonfi sordi
dentro al petto, in un attimo, presero a correre
irregolari, come i guizzi di un saltimbanco troppo vecchio per dare spettacolo.
Eppure, la discrezione di quei colpi alla porta
sembrava quasi un riguardo alla sua solitudine. Fu forse per questo che le
attraversò la mente un presentimento. Lo scacciò, infastidita. Il presentimento
però, così com’era stato rifiutato, tornò alla svelta a fare capolino. Quei
colpi dovevano essere di qualcuno che veniva da molto lontano nel tempo e che
la conosceva bene. Un volto, una voce che lei, giorno dopo giorno,
aveva lasciato ricoprire dalla polvere. Con un gesto automatico delle dita
riavviò i capelli. Poi, dopo un’ultima esitazione, girò lentamente la chiave
nella toppa e aprì. Le piaceva gustare il cigolio dei cardini, le piaceva
decidere quando e come dare un volto alle ombre che chiedevano di entrare nella
sua casa. In questo modo lasciava tempo al cuore di rallentare la sua corsa. Il
buio che c’era fuori, per un attimo, le impedì di vedere. Anche il giallo dei
cespugli di forsizia, che delimitavano
il viale, si confondeva in un’unica massa scura. Quando
però, nell’ombra, si trovò accecata dalla luce di due occhi febbricitanti,
capì. Nonostante quella che le stava di fronte fosse
soltanto una sagoma invecchiata, una caricatura del ragazzo che Samuele era
stato, riconobbe suo figlio. Il cranio rasato e il colore ocra della veste che
indossava, le parlavano di terre lontane, di Oriente,
di monaci erranti. Per un attimo si sentì trafitta da un dolore pungente, ma
riuscì a dominarlo. Dopotutto, quell’uomo sfiorito che le si
presentava davanti, era il figlio che una mattina d’estate, tanti anni
prima, aveva lasciato quella casa per inseguire dei fantasmi. In quei giorni lontani,
un’ombra era comparsa all’improvviso nella mente di Samuele, con la stessa
irruenza di un angelo sterminatore. Seguendo quell’ombra, passo dopo passo, si
trovò condannato ad un cammino di passione, e la sua diventò presto una fuga da
animale braccato «alla ricerca di una
risposta alle mie ossessioni…». Queste parole trovò
scritte in una lettera, come scolpite su un muro di ghiaccio.
Sulla porta rimasero a lungo
senza parlare, studiandosi a fondo, come due animali al loro primo incontro. Finché mamma Linda, con un gesto solo accennato, invitò Samuele
dentro la casa. Si sentiva smarrita, perché sentiva
che il suo amore di madre la stava piegando. Automaticamente, le venne da
allungare una mano per carezzarlo, come si può
carezzare un neonato, ma si fece forza. Allora si ritrasse, trasformando quella
carezza mancata in un nuova preghiera ad entrare.
Samuele, camminando con un passo incerto, quasi circospetto, andò a sedersi in
un angolo, lo stesso dove gli piaceva rifugiarsi
quando era bambino. Uno ad uno riconobbe gli spettri che abitavano la casa: le
piccole crepe nei muri, gli alari di fianco al camino, le pentole dal fondo
annerito, il crocefisso di legno alla porta d’entrata. Più di
ogni altra cosa però, il suo sguardo fu attratto dall’immagine di san
Cristoforo, protettore dei pellegrini, che stava appesa alla parete in fondo al
corridoio. Gli occhi del santo, ritratto mentre guadava un corso d’acqua
reggendo sulle spalle il Bambino Gesù, sembravano
fissarlo. Tante volte aveva ritrovato quegli occhi nei suoi sogni lungo il
cammino e sempre gli avevano dato coraggio nei momenti difficili. Per un attimo
si sentì come se stesse risvegliandosi proprio allora da un lungo sonno.
Guardandosi intorno, vedeva che ogni cosa aveva l’aspetto di un vivaio sfiorito.
Era come se nessuno, per anni, lo avesse irrigato. Quietato, come un animale
che torna alla tana dopo un lungo periodo di caccia, iniziò a parlare. Piano,
quasi sottovoce, per non spezzare l’incanto di quel momento. Una
delicatezza, questa, che mamma Linda non gli conosceva. A mano a mano
che Samuele parlava degli anni passati lontano, la sua
eccitazione cresceva, proprio come cresce il trasporto dei bambini, quando
parlano delle loro scoperte. Parlò degli alberi nei boschi, all’ombra dei quali
tante volte si era riposato nei pomeriggi d’estate, o che gli avevano fatto da
riparo nelle notti passate all’aperto. Parlò delle erbe e delle spezie che
aveva imparato a conoscere. I vecchi frati dei conventi gli avevano insegnato a
farne delle medicine. Parlò dei frutti con i quali si era nutrito, degli
animali selvatici e del loro linguaggio. Parlò delle città e dei villaggi che
aveva attraversato, delle pagode e delle cattedrali, dei minareti e dei
campanili, alti come giganti di pietra. Parlò della gente, diversa da lui, che
aveva incontrato in quei paesi e della strada che avevano percorso insieme,
discorrendo di storia e di filosofia. Parlò delle lingue e dei dialetti, dei
suoni e delle musiche che lo avevano fatto danzare fino quasi a perdere il
senno. Parlò degli uomini saggi che gli avevano indicato la via della
conoscenza e delle donne che lo avevano tentato, chiuse nel segreto di una
stanza. Parlò dei colori e dei profumi di mercati lontani, dentro i quali si era mescolato alla folla, perdendosi come stordito. Parlò
dei ruscelli che l’avevano dissetato, dell’elemosina chiesta ai bordi di strade
polverose o seduto sulle pietre dei cimiteri, e del rossore che aveva sentito
sul viso le prime volte che aveva steso la mano. Rossore del
quale aveva imparato a non provare vergogna, considerandolo un passo necessario
nel suo cammino di liberazione dall’orgoglio e dalla vanità. Con un
piccolo tin tin imitò il suono delle monete che cadevano sul
palmo. Sorrise a quel gesto infantile.
Parlò delle scelte che aveva
deciso per sé e per il resto della sua vita. Poi, abbassato un momento lo
sguardo e sospirando a lungo, s’interruppe spossato. Quando
riprese iniziò a guardarsi intorno, curioso. All’improvviso, scopriva che il
suo lungo cammino gli era costato uno sforzo del quale
solo ora comprendeva la portata. E ammise la fatica,
gli errori, le cadute. Ma disse anche, con grande
serietà, che ognuna di queste piaghe era una conquista verso la purificazione,
una cicatrice che avrebbe esibito con vanto. Rialzati gli occhi, parlò della
rinuncia a quello che guasta la mente degli uomini,
impedendo loro di vedere con chiarezza la meta finale. Disse che «ogni uomo deve vivere secondo natura,
rinunciando a tutto ciò che lo avvelena».
Lui, allora, aveva rinunciato al vino perché infiamma lo spirito,
trasformandolo in un demonio senza redini e capace di ogni
delitto. Aveva rinunciato alle droghe, perché, al prezzo di
una falsa conoscenza, lasciavano prostrati, sfiniti. Anche
a giacere con le donne aveva rinunciato, smettendo di cercare il piacere che
può dare il contatto con la loro pelle, perché «il Maligno a volte si fa carne, e si nasconde in un corpo di donna per
tenere l’uomo nella schiavitù del peccato!». Disse, infine, che nel suo lungo
cammino aveva rinunciato alla calunnia, alla gelosia, al torpore dei sensi,
alla pigrizia dei gesti. E alla fiacchezza dei sentimenti,
all’attaccamento per le cose, all’indugiare molle nella nostalgia dei ricordi.
Per ultimo, disse che il suo nome adesso era Swati Satya Nand, e così voleva essere chiamato,
anche da lei.
Poi, d’improvviso, si fermò.
Anche i grilli, nei prati intorno alla casa, come in
risposta a un comando, smisero i loro canti. La luna, alta nel cielo, faceva
capolino dai vetri, come una bambina curiosa. Dentro la stanza calò il silenzio.
Mamma Linda si sentiva come un
automa al quale si fosse spezzato il meccanismo. Dentro di lei, come un
lievito, montava un rancore sordo. Il rancore verso ciò che avrebbe potuto
essere la loro vita e invece non era mai stato, verso tutte le gioie di madre
che Samuele le aveva negato. Tuttavia, nella battaglia
che si combatteva dentro il suo cuore, fu la tenerezza ad avere il sopravvento.
In quegli attimi avrebbe tanto voluto tuffarsi in un abbraccio, nella
consolazione che solo il perdono può dare, ma trattenne
il suo amore e non lo lasciò traboccare. Pensò che tutto lo struggimento di
quegli attimi fosse dovuto al rimpianto, un sentimento
che aveva domato per tanto tempo, e che questo pungolo la facesse sragionare.
Forse era proprio quel dolore a farle perdere di vista la logica del tempo e
dello spazio, confondendo le immagini dentro di lei. Tutto ruotava come una
trottola sfuggita di mano, mescolando i ricordi.
Intanto Samuele, dopo un
momento di vuoto, prese a vagare con lo sguardo, cercando un ordine che ormai
aveva smarrito e che comunque non gli apparteneva più.
Un colore, un profumo che gli potesse far dire «Ecco, questa un
tempo è stata la mia casa. Questa è mia madre, che avrebbe
voluto legarmi come si lega un animale alla catena. Questa sarebbe
diventata la mia prigione, se non avessi intrapreso la via del cammino
perfetto, alla ricerca della castità dal peccato. Ora però, alla fine del
viaggio, il mio spirito è finalmente libero!». Senza averne consapevolezza,
tornò ad incrociare gli occhi di mamma Linda. Dopo tanti anni di cammino
disperato, passati a tormentarsi, fu una scoperta. Nella sua mente pulsavano i
ricordi, ed era come una guerra.
I pensieri si accalcavano uno
contro l’altro. Poi si divincolavano, sgusciando come serpenti. Sembrava una
folla impazzita alla ricerca di una quiete persa per sempre.
Tacevano entrambi, chiusi
dentro un labirinto che non permetteva ai ricordi di affiorare. Si guardavano,
ma non c’erano parole che potessero avvicinarli. Solo
gli occhi. Furono gli occhi di mamma Linda a parlare per primi. Con un filo di
voce, mantenendo uno sguardo senza espressione, gli disse che aveva capito e
che lo avrebbe capito per sempre. Gli disse che era
felice per la perfezione del cammino compiuto e che avrebbe difeso ogni sua scelta,
del passato e del futuro. Lo avrebbe fatto perché era sua madre. Non gli disse però della vita che le era stata negata, della
felicità nella quale aveva sperato. Tutto il fuoco che la bruciava dentro seppe
racchiuderlo in queste parole: «La gioia
che provo è grande e supera il dolore. E’ la gioia di chi sa che il proprio figlio ha raggiunto il traguardo più alto: la
pace del cuore. Sono serena sapendo che il tuo dominio sulle passioni adesso é
invincibile. Questo ti avrà certamente insegnato a padroneggiare anche i
pensieri, trasformandoli in servitori docili. Perché solo
quando si raggiunge il dominio sui ricordi si è veramente liberi, capaci di
affrontare la vita senza rimorsi né rimpianti. Adesso, se vuoi, puoi
lasciare per sempre questa casa e continuare nel cammino. Hai la mia
benedizione di madre, Swati Satya
Nand”.
Questo gli disse e poi tacque,
sentendo il cuore batterle nel petto con la forza di un maglio. Samuele aveva
ascoltato attentamente ognuna di quelle parole che sembravano avere il gusto
dolce del perdono, e un sorriso compiaciuto gli segnava il volto. Sul finire
della frase però, mentre i suoi muscoli cedevano per abbandonarsi alla gioia di
un pianto riconoscente, si sentì attraversare da un brivido inatteso. All’improvviso, l’immagine di san Cristoforo, che lo aveva
accompagnato paziente in tutto il suo viaggio, prese a pulsargli nella mente.
Senza controllo, al punto che ogni altro pensiero dovette
fargli posto. Il rimbombo di un tuono, lontano nella vallata, riportò
tutti i suoi sensi ad un temporale che aveva vissuto con terrore, mentre
attraversava un braccio di mare fra due isole dell’Egeo. Subito, a questo
ricordo ne seguì un altro: l’odore acre che si sprigionava da una pira durante
un funerale a Benares. Poi risentì il profumo della
zagara in un giardino della Sicilia. Rivide gli occhi di suo padre, che da
bambino gli erano sembrati tanto severi. Riprovò la tenerezza del bacio ad una
ragazza che aveva aspettato fuori della scuola, in un pomeriggio d’inverno
sotto la neve. Sorrise quando gli sembrò di riascoltare lo
sbuffo delle locomotive che guardava passare, quando il nonno lo portava in
bicicletta fino alla stazione. E poi il tintinnare
delle foglie dei pioppi, le ore passate a dare un nome alla forma delle nuvole,
la prima poesia dedicata ad una donna, la voce stridula di un muezzin che
chiamava i fedeli alla preghiera, le urla confuse in un mercato egiziano.
I ricordi correvano davanti ai suoi occhi senza un ordine, come cuccioli
smaniosi delle mammelle della loro madre.
Passato e presente sembravano non esistere più.
«Il
dominio dei pensieri…». Quelle parole di sua madre, affilate più di
una lama, lo passarono da parte a parte. Nessuno dei maestri che aveva
incontrato sul suo cammino aveva saputo parlargli a
quel modo! In un attimo si fece chiaro dentro di lui, e comprese ciò che tutto
il suo girovagare non era riuscito ad insegnargli. Senza un vero dominio sui
pensieri, ogni tortura, ogni macerazione del corpo non avrebbero
potuto dargli che un’illusione di libertà. Non esiste uomo, pensò, capace di essere libero senza prima avere scacciato i fantasmi che
muovono i fili della sua mente. Questo era lo scrigno della saggezza che aveva
cercato nel suo viaggio! Nessuna mortificazione dei sensi, nessun
sacrificio avrebbe mai potuto dargli una risposta più vera. Capì che il suo
cammino verso la consapevolezza non era ancora iniziato e un nuovo sentiero lo
aspettava. Ma era un sentiero che non avrebbe percorso
da solo. Abbracciò sua madre, con trasporto, e da quel momento provarono entrambi
una lunga consolazione.