Pierluigi Mondani
QUANDO
ORFEO CHIUSE GLI OCCHI
Orfeo Bià, quarantasei anni, sposato senza figli, chiuse gli
occhi e morì. Per meglio dire: decise di chiudere gli occhi e morire. In verità
non aveva un motivo per farlo. Non era malato e neppure aveva subito incidenti
o altre seccature del genere. Godeva, al contrario, di una salute di ferro.
Soltanto voleva sapere quel che si prova ad essere
morti e partire per l’ultimo viaggio, tutto qui. Perciò, con lo stesso distacco
che si potrebbe avvertire girando una chiave nella toppa o infilando il
soprabito per uscire di casa, chiuse gli occhi e morì.
Accadde
tutto in un sabato appiccicoso di fine Giugno, mentre se ne stava spaparanzato
sul divano di casa. Nemmeno il ronzare di una mosca affamata sembrava infastidirlo.
Sua moglie Diana era fuori casa ormai da ore, persa in qualche centro
commerciale con altre signore inquiete come lei, assediata da bambini lagnosi
che l’avrebbero resa isterica per il resto della
giornata. Orfeo non aveva idea di quando sarebbe tornata,
sapeva però che al rientro l’avrebbe trovato a quel modo. Riverso sul divano,
la testa poggiata su un bracciolo come se dormisse e le pantofole a qualche
passo di distanza, gettate là con sciatteria, come faceva
sempre nelle pennichelle del fine settimana.
Si amavano ancora, certo, ma dopo tanti anni passati fianco a fianco,
ormai si erano ridotti a vivere come dentro un palazzo di cento piani,
abitato da nessun altro che loro due. Così, come capita a molti, avevano smesso
di incontrarsi per davvero.
Ad Orfeo,
l’idea di morire non era balenata all’improvviso, ma la rimuginava da tempo.
L’aveva preparata con cura, provando e riprovando tutta la messinscena. Quasi
come fosse la trama di un film, aveva studiato ogni
dettaglio: il giorno, l’ora, il posto. Perché, quando uno
parte per l’ultimo viaggio, lo deve pur fare con tutti i crismi!
Oddio,
vada per il posto e l’ora, ma sulla scelta del giorno fin dall’inizio qualche
scrupolo se l’era fatto: “Chissà, forse
sarebbe meglio morire in Novembre o sotto Natale. Mi sembrano mesi più adatti a
questo genere di cose”.
Alla
fine però, valutando i fastidi che avrebbe potuto causare ai parenti, magari
riuniti a scartare i doni sotto l’albero, decise che un mese valeva l’altro. E poi, quante storie, una volta che fosse
andato all’altro mondo, che fosse defunto cioè,
minuzie del genere che importanza potevano avere?
Le prime
ore dopo morto si rivelarono piuttosto movimentate, quasi buffe. Prima ci si
misero due infermieri, davvero maldestri nei loro tentativi di rianimarlo,
tanto che gli scappò un: “Citrulli, ma
non lo vedete che sono già morto?”. Poi fu il turno di Diana, appollaiata sullo
sgabello in cucina, i gomiti piantati sul tavolo e la testa ciondolante fra le
mani, che singhiozzando ripeteva una nenia indecifrabile. Malgrado
i suoi sforzi, Orfeo non riuscì a capire nemmeno una parola di quella strana
Babele, tranne una serie di “grunf”, “nghee” e altri suoni
bizzarri che solo le mogli sanno inventare quando ci si mettono.
Per
ultima la suocera, arrivata di corsa dal condominio di fronte, che subito
cominciò a svestirlo: “Presto, va
cambiato in fretta prima che diventi tutto rigido! Ricordi cos’è successo col marito della Prandi,
che hanno dovuto sudare sette camicie per poterlo vestire? Dimmi Diana, dove
tieni il gessato che hai fatto fare lo scorso autunno
per il matrimonio del dottor Bazzi?”
Insomma, una baraonda.
Il
funerale invece lo riempì d’orgoglio. Contò ben sei corone e otto cuscini di crisantemi, gerbere
e garofani bianchi. Davvero non si sarebbe aspettato uno sfarzo del genere,
nemmeno per l’ultimo viaggio. In chiesa seguì attentamente l’omelia, visto che
in fondo parlavano proprio di lui, “il nostro caro fratello Orfeo”. Sentì le parole di commiato pronunciate da don Luigi e, con
affetto, anche il breve saluto letto da Ugo, il decano fra i suoi colleghi di
lavoro. Provò invece un senso di fastidio al brusio e alle chiacchiere che fanno da inevitabile corollario ad ogni corteo funebre, già
dal momento in cui s’incammina per accompagnare il feretro al camposanto. Così,
fra un pettegolezzo e l’altro, gli toccò pure di ascoltare qualche maldicenza
sul suo conto. Piccole cose, per carità, parole sussurrate a
fior di labbra, tanto che per sentire meglio dovette allungare il collo di qua
e di là. Alla fine decise di non dar peso alle malelingue: “Arrivati a questo punto, che importanza può
avere il giudizio di qualche cialtrone?”
Piuttosto, al termine del
tragitto, provò l’unico attimo di smarrimento. Anzi, di vero terrore. Fu nel
momento in cui comprese, senza ombra di dubbio, che
gli sarebbe toccato entrare in quella buca scavata per terra: “Ma, dico, quella fossa l’avete scavata per
me, nel senso che dovrò riempirla io?”
Se la trovò davanti all’improvviso, scura, profonda, e allora realizzò di colpo
che nel progettare il suo piano forse non aveva dato a quel particolare
l’importanza che meritava. Col risultato di capire, solo in
quel preciso istante, che era morto per davvero, con tutti gli annessi del caso.
Avrebbe tanto voluto tornare indietro, rinunciare al
suo folle viaggio, chiamare Diana e dirle: ”Dai,
era solo uno scherzo. Cosa credevi, sciocchina, che volessi
morire davvero?”
Tornare indietro…
Sentì che stava scendendo “Ma quanto devo scendere ancora?” e infine
un rumore sordo, uno STUD che gli fermò il respiro. “Come il respiro? Questa è bella. Che respiro potrò
mai avere adesso che sono morto?” Poi pensò: ”Forse è così che respirano i morti, con un respiro che non è un vero
respiro. Un respiro dove non entra ossigeno e non esce anidride carbonica”. Insomma,
quelle cose complicate studiate a scuola. Il fatto era che lui stava
respirando, in qualunque dannato modo fosse, stava respirando!
Ma c’era di più. Pur trovandosi steso in
fondo a una buca, in viaggio per chissà dove, si
rendeva conto di aver conservato intatta la sua capacità di pensare e di capire
quello che gli stava accadendo sotto quel metro di terra. Di terra? “Ehi, dico a voi! Cosa fate con quelle pale? Guardate che è terra quella che
mi state buttando addosso, è proprio terra! Fermatevi, io non credevo che andasse a finire così, volevo solo vedere fino a
dove sarei riuscito ad arrivare nel mio viaggio!”
Nessuno poteva sentirlo. Eppure gli sembrava di urlare, con tutto il fiato che aveva.
Come avviene anche nei sogni però, dalla sua bocca non uscivano
suoni e così le facce dei presenti non cambiarono di una virgola le loro
smorfie ebeti.
Fu a quel punto che i suoi
pensieri, come palloncini ai quali un vento forte abbia spezzato il filo,
presero a vorticare. Pensò alla gente che sfollava verso casa, in quel
pomeriggio di fine Giugno. Pensò a Diana, che forse -come darle torto?- già
immaginava una nuova vita con un altro al posto suo. Pensò alla decisione che
aveva preso, di morire così, senza preavviso, nemmeno gli otto giorni che si
danno al principale quando si cambia posto di lavoro. Finché, lentamente, si accorse che cominciava anche a fare delle
ipotesi sul suo futuro lì dentro. Con terrore pensò a tutti i secoli dei
secoli che sarebbero seguiti a quei primi momenti.
Non ci mise molto a capire
che il tempo, lì sotto, scorreva troppo lentamente. Questa consapevolezza gli
fece montare dentro come un’ansia, una curiosità morbosa. La
curiosità di chi vorrebbe sapere come diavolo poter occupare i propri giorni
per tutti quei millenni che attendevano minacciosi. Aspettare avrebbe
aspettato, cos’altro poteva fare, ma in attesa di
cosa? Da vivo aveva sempre creduto che il tempo, dopo morti, non avesse più
alcun valore. Ora invece contava i giorni, le ore, i minuti. I rintocchi del
campanile dell’Assunta, ogni mezz’ora, lo aiutavano a tenere il conto. “Dunque: se due
rintocchi fanno un’ora, quarantotto rintocchi fanno un giorno e
millequattrocentoquaranta rintocchi fanno un mese. Poi ci sono i mesi di
trentun giorni, e Febbraio che ne ha ventotto, e gli
anni bisesti”. Da perderci la testa! “Ma ti pare sensato pensare di tenere il conto dei giorni per
tutta l’eternità? E quanto potrà mai durare questa maledetta
eternità?”
Fino a
quando, come avviene per tutte le cose dal momento in cui si comincia a farci
l’abitudine, anche lo scorrere del tempo, che all’inizio gli era sembrato pigro
e indolente, col passare degli anni prese a correre un po’ più svelto. In fondo si trattava solo di inventarsi
qualche passatempo. Già, qualche passatempo! Facile per chi ha moglie e figli,
un lavoro, la partita alla Domenica, ma chi dovesse
trovarsi di colpo lì sotto, in cammino per l’aldilà, cosa mai potrebbe
inventarsi?
I primi anni non gli
rimaneva altro da fare che fissare in tutta calma il suo corpo che si disfaceva. Prima i muscoli, i nervi, i tendini. Poi anche le
ossa, inesorabilmente, cominciarono a cedere.
Grazie a questo lento
processo, Orfeo poté almeno verificare che tutte le storie paurose di nonno
Aldo, dei “vermi che entrano nelle
orbite, escono dalle mandibole, fanno su e giù fra le costole come fossero al
luna park” erano solo frottole per spaventare i
bambini. Lui non aveva mai visto neppure un vermetto
aggirarsi da quelle parti. Magari ai tempi del nonno, quando
i morti li seppellivano nella nuda terra, allora si. Anche
se, a pensarci bene, forse un po’ di compagnia l’avrebbe proprio gradita.
Una cosa soltanto
continuava a non capire, neanche dopo i primi due o tre secoli. Dunque, tutto doveva risolversi nel rimanere sdraiati per
l’eternità a vedersi diventare polvere? Se era questo
che doveva aspettarsi, tanto valeva ammetterlo subito: si trattava di una gran
rottura di scatole! Tanto più che col passare del tempo, gli pareva che intorno
a lui tutto andasse facendosi più buio. Ma non un buio
come c’è sulla terra, dove basta una lucina, magari
una candela oppure una stella sulla capanna del presepe, e già non è più buio.
Quello era un buio orrendo, da mettere paura solo a pensarci. Figurarsi allora se la prospettiva era quella di rimanerci
rinchiuso per sempre. E lui, Orfeo Bià, aveva deciso di mettersi in viaggio per l’aldilà
soltanto per ridursi a patire quel freddo in eterno? Di nuovo avrebbe voluto pentirsi della sua scelta ma l'orgoglio non
glielo permise.
Così, giorno dopo giorno, si rassegnò a contare i rintocchi del campanile,
senza perderne uno, quasi come se dietro ad ognuno di quei DENG si nascondesse
la risposta che cercava. Naturalmente la soluzione non poteva certo trovarsi in
quel suono antipatico. Lui, ostinato, ci mise parecchio ad ammetterlo, ma alla
fine si rassegnò e smise di contare. In verità fu una cosa non voluta, una
distrazione. Un giorno, soprapensiero, si accorse di aver saltato un rintocco: “Saltato un rintocco?
Babbeo che non sei altro! Come farai adesso a
calcolare i mesi e gli anni? E poi, sei proprio sicuro
di aver saltato solo un rintocco? E se fossero due, o
magari tre? Che disastro, che disastro!”
Grazie a
una disattenzione dunque, così com’era arrivata quella folle mania se ne andò.
In verità non ne sentì la mancanza perché fu come lo spezzarsi di una fune
ormai logora. Quello strappo, infatti, gli permise di far emergere l’idea che
il tempo, come lo misuriamo noi, non esiste, ma è solo
una convenzione, un contratto fra Dio e gli uomini, un foglio di carta da
stracciare dopo morti.
Libera da ogni vincolo, la
sua mente cominciò a ricordare particolari dimenticati della vita precedente.
Come sugheri che tornano a galla, affioravano le
parole che aveva sentito in televisione o letto su giornali e riviste: il
racconto di chi aveva vissuto un’esperienza di pre-morte.
Ma dai, come c’era potuto cascare! Di sicuro quelli non erano morti per
davvero. Magari una botta in testa o un’anestesia un po’
abbondante e via, tutti a scambiare una dormita più lunga del solito con un
ritorno dall’altro mondo. Baggianate. Lui era morto per davvero e una volta per tutte.
Cos’è che dicevano quegli
squinternati? “Un senso di strappo, un
viaggio dentro un tunnel buio, e in fondo al tunnel
una luce sfolgorante che però non abbagliava. E i parenti e
gli amici già morti ad aspettarli sorridenti, dentro un giardino meraviglioso”.
Poi però, i morti per
finta, ad un tratto venivano risucchiati da una forza
misteriosa che li trascinava indietro. E loro a
piagnucolare: “No, non vogliamo tornare
sulla Terra, lasciateci qui!”. Ma
una voce potente a ribattere: “Via, non
ancora il
vostro momento. Ci sono mogli, mariti, figli che hanno bisogno di voi”.
Stop, fine del viaggio.
Balle, tutte grandissime balle! A lui, dopo morto, non era capitato niente di simile.
Se avesse potuto lo avrebbe messo per iscritto che gli
era toccato il nulla, il vuoto totale. Proprio il nulla? In fondo lui poteva
ancora ragionare, ricordare e fino a un certo punto
persino progettare.
Allora, forse non era del
tutto vero che si trovava rinchiuso in una bolla fatta di niente. Certo, il
mondo dove stava adesso era un po’ particolare, ma pur sempre reale, con le sue
leggi. Quella scoperta lo disorientò. Tuttavia, lo sconcerto
che prova chi è sotto terra non ha paragone con quello delle persone vive.
I vivi infatti possono riprendersi, abbattersi e poi
di nuovo riprendersi, come su una giostra. Lui quello sconcerto poteva solo
subirlo, come una condanna. “Una
condanna, certo! Ecco la risposta…”
Si sentì attraversare da
una scossa, un lampo che gli fece comprendere quello che per secoli non aveva
capito: il suo viaggio non era altro che un lunghissimo purgatorio.
Pensò con sollievo: “Allora questa pena, una volta espiata, si
trasformerà in consolazione
e alla fine del cammino, rigenerato, potrò godere il premio di
una vita nuova!”
Doveva essere proprio così. Qualcosa, che
ancora non riusciva a definire, lo avrebbe alla fine ripagato
per tutto quel buio.
Orfeo, lentamente, si accorse di
cominciare a sognare. All’inizio erano solo visioni sbiadite, ombre che
fluttuavano in una nebbia spessa. Poi, man mano che la sua mente si abituava
alle immagini, capiva che erano proprio sogni quelli che si formavano tutto
intorno a lui. Colorati, come quelli che si godeva sdraiato
sul divano di casa sua, nei pomeriggi d’estate. Questa novità, la
comparsa di macchie di colore arrivate da chissà dove,
lo riempì di una grande euforia. Qualcosa stava finalmente cambiando, dandogli,
dopo tanto tempo, il calore di una piccola fiamma. Forse il suo non era più un
viaggio nell’oscurità.
Non sapeva da quanto tempo fosse chiuso lì dentro, ma per la prima volta non gli
importava. Da quel momento infatti, fu un
caleidoscopio di colori, una girandola che poteva guidare, decidendo quali
immagini portare in scena. Sullo schermo della mente riusciva a proiettare
forme meravigliose che riempivano di luce tutto quel
mondo cupo. “Allora è davvero valsa la
pena di patire per secoli questa solitudine, questo buio, se adesso mi viene donato un potere così grande!”
Decideva di creare paesaggi favolosi,
verdi di un verde che non aveva mai visto sulla terra, ed ecco, come in
un’esplosione, apparivano colline e alberi colmi di frutti invitanti. E, sotto gli alberi, animali mansueti che vivevano in pace fra loro.
Il cielo azzurro di quei sogni era pieno del volo di uccelli
che riempivano l’aria coi loro richiami.
Pensava ad immagini di un
mare calmo e subito gli apparivano onde soffici, spinte
da una brezza leggera. E dentro il mare, miriadi di
pesci che guizzavano felici a pelo d’acqua.
Ogni cosa, la più bella e
poi la più bella ancora, Orfeo poteva sognare, e
subito questa prendeva forma davanti ai suoi occhi.
Trascorse così molti anni.
Il tempo non esisteva più, e lui si sentiva finalmente libero nel suo viaggio.
Cos’era allora quella smania che poco alla volta, come un presentimento
sottile, sentiva crescergli dentro? Fosse stato ancora vivo l’avrebbe chiamata inquietudine, ma adesso, quel termine aveva
ancora valore?
Mano a mano
che quel chiodo gli si conficcava nell’anima, si accorgeva che anche il suo
potere di fabbricare sogni perdeva energia. Era come se a
un motore, d’improvviso, fosse venuto a mancare il carburante. Così, come
l’inerzia che il motore andava perdendo, anche la sua gioia svaniva. Proprio
quando pensava di aver lasciato per sempre quel buio e indirizzato il cammino
verso un’altra meta, improvvisamente si ritrovava a combattere contro una marea
che montava e non sapeva come frenare.
Come un male subdolo,
quella sensazione agghiacciante si stava prendendo nuovamente gioco di lui. Fino
al giorno in cui, schiacciato sotto il peso di
un’oscurità cupa, vide l’immagine di se stesso piegato a terra, e tutto intorno
la percezione di un evento incombente e definitivo, come l’avvicinarsi di un
verdetto.
Aveva come la sensazione di
trovarsi in quello stato fin dalla notte dei tempi, quando una voce, che non
riconobbe subito, persa com’era nella palude dei ricordi, lo chiamò: “Orfeo!”
Diana, in un globo di
nebbia sottile, camminava verso di lui. Il suo sguardo aveva la bellezza e lo
stupore del giorno in cui si erano conosciuti. Dietro di lei, sorridenti,
stavano tutte le persone importanti della loro vita: i genitori, gli amici, i
maestri che li avevano aiutati a crescere senza chiedere nulla in cambio. Tutti avvolti da un chiarore che non sapeva spiegare. Nella
sua mente risuonava l’eco di un coro: “Finalmente!”
Un brivido scosse Orfeo e
subito una forza smisurata lo spinse a correre verso quelle figure. Si
abbracciarono, si strinsero forte, si guardarono a lungo negli occhi.
Poi,
lentamente, tenendosi per mano come fosse il mattino di un giorno appena
creato, iniziarono un nuovo cammino.
Il cammino verso la piccola luce che intravedevano appena, in
fondo a quello strano orizzonte. Senza chiedersi quanto lungo fosse
ancora il viaggio.