Andrea Anselmi
IL VIAGGIO DI MARCO
“Marco. …. E’
ora di avviarsi”.
Da un po’ di tempo le mie giornate iniziavano con questa esortazione.
Era il segnale che ogni mattina mi richiamava alla
ripresa del cammino.
Insonnolito e intorpidito, mi alzai dalla mia amaca
e lentamente mi affacciai dalla tenda. Il volto fu percosso dalla brezza
mattutina che non era ancora riuscita, sebbene il freddo rigido, a risvegliare il
paesaggio, facendolo riaffiorare dalla notturna oscurità.
Molti anni erano trascorsi da quando, tormentato
dalla sete della curiosità e dall’insolente superbia giovanile, decisi d’intraprendere questo viaggio, apparentemente
insensibile al dolore creato per quello che lasciavo, inquieto e carico di
tensione per cercare di carpire ogni piccolo segno di novità in ciò che avrei
potuto incontrare.
“ Marco, .. allora sei
pronto? ” riprese quella voce spazientita.
Era l’incalzante richiamo dello zio, compagno in
quest’affascinante avventura.
Quella mattina mi tornò alla mente la luminosa
eccitazione iniziale apparsa nei suoi occhi, quando, dopo molte notti insonni
consumate nello studio di antiche mappe, con sorpresa,
mi propose di accompagnarlo in questo viaggio alla ricerca d’inesplorate
strade, verso le lontane terre d’oriente.
Rammento che subito intuii la straordinaria
occasione che mi veniva offerta. Avevo la possibilità d’incontrare
città e popolazioni dai costumi sconosciuti e differenti, la cui esistenza trovava solo una labile traccia nelle leggende ascoltate da
ragazzino, durante le interminabili notti invernali, nelle locande del porto.
Mentre
accomodavo la tenda e i bagagli, ebbi l’opportunità di riflettere
sull’inflessione della voce dello zio che, da qualche tempo, si mostrava
diversa, come segnata dall’ombra di un’assenza, la mancanza di qualcosa. Certo non
era la stanchezza o le preoccupazioni per le sorti del viaggio, ormai pressoché
giunto al termine.
Quel tono era come contrassegnato da un pesante
velo grigio di malinconia che avvolgeva il cuore: forse nasceva dal sentirsi
lontano da casa per lungo tempo, o più verosimilmente,
aveva origine nella paura di tornare nei luoghi d’origine, con la segreta
consapevolezza di non ritrovare più nulla com’era stato lasciato, né i propri
amici e famigliari, né le strade e palazzi, o semplicemente gli odori e colori
così straordinariamente unici, nella città natia tanto amata.
Così come era cambiato lui,
anche la città e i suoi abitanti si erano trasformati diventando un luogo
straniero, obbligandolo, suo malgrado, a mettersi in gioco e a riscoprire quei
territori.
“ Eccomi sono pronto!” risposi quasi in modo
meccanico all’invito dello zio, per non distogliere la tensione dai pensieri
che fin qui stavano scortandomi.
Raccolsi i pochi bauli, li caricai sul vicino carro
e montai in fretta a cavallo.
Non potei fare a meno, di indugiare un istante ad
osservare quel paesaggio che si stendeva per tutto l’orizzonte, là, verso est,
dove il sole, miracolosamente, ogni giorno, riaffiorava.
Con nostalgia, aspettavo il momento dell’alba per
poter ammirare questo spettacolo. Le latitudini geografiche attraversate mi
proponevano continue novità esaltando tutti gli elementi naturali, ma
era
quest’imparagonabile scena, monotona nella trama ma straordinariamente
innovativa nella recitazione, che mi affascinava. Era l’evidente avvertimento
di una Presenza per mezzo del continuo
rinnovarsi di un segno:
il metodo concreto per ridurre la distanza tra l’infinito incomprensibile che ci
sovrasta e il mondo dell’umano circostanziato che ci limita.
Uno spettacolo che impone il silenzio al proprio
cuore.
Così, come ogni mattina, mi ritrovai a pregare, con
un sentimento di gratitudine e di benevola commozione che riempiva l’animo: con
il passare degli anni, infatti, avevo imparato ad essere un
testimone e non più un
creatore della bellezza e, non era stata una cosa semplice per un errante costruttore
di cattedrali.
Il secco ordine del cammelliere invitò la carovana
a mettersi in marcia ed interruppe il dipanarsi dei miei pensieri.
Lentamente, sollevando nubi di polvere, ogni cosa
intorno a me si animò sinuosamente.
La giornata si prospettava limpida e priva
d’umidità.
La leggera brezza mattutina, un vento che trovava
origine da ovest, aveva già riempito l’aria durante la notte del forte odore
salmastro, annunciando al cuore, prima ancora che al mio olfatto, l’imminente
vicinanza del mare.
Con sollecitudine spronai il cavallo e raggiunsi la
carovana che si era messa in movimento ricalcando la traccia sottile della
strada da percorrere.
Oramai, mancava solo una giornata di cavallo per
tornare alla città da dove anni prima eravamo partiti e così, anch’io come lo
zio, mi trovai sorpreso con il cuore carico di domande e trepidante emozione.
Quel profumo di mare presente nell’aria,
solleticava l’immaginazione della mia memoria facendo riemergere una
moltitudine di sequenze apparentemente casuali, che ripercorrevano
velocemente i luoghi amati.
Subito emerse nella mente la visione della mia
città, il cui nome ed identità trovano contenuto nella fedeltà di un rapporto,
di una relazione, di una dipendenza rispettosa e timorosa verso la realtà che
circondandola la
sovrastava: il mare.
Tutto il territorio limitrofo descriveva in ogni
anfratto questo legame e ricordo chiaramente che in certe giornate invernali, i
foschi vapori della laguna riuscivano a confondere la linea di separazione tra
il cielo e la terra con un cromatismo tenue e sottile, tanto da dare
l’impressione agli abitanti di quel luogo di dimorare in un mondo sospeso per
aria e del tutto unico.
Pian piano, l’immagine dei palazzi gentilizi decorati
con marmi preziosi e le soglie d’ingresso immerse
nello sciacquii dell’acqua in un perpetuo movimento, iniziarono a far emergere
i contorni dei ricordi più cari e familiari.
Da quell’istante fu un susseguirsi rapido e
disordinato di situazioni e rimpianti. Dapprima rividi le strade dove trascorsi
la mia infanzia, il loro lento e ostinato dipanarsi nel labirinto dei vicoli, celandosi
e riaffiorando in improvvisi chiassosi slarghi assolati; poi ecco i ponti,
leggeri e trasparenti, in grado di oltrepassare con facilità ed eleganza i
canali, annodando le singole contrade; infine riaffiorarono con forza quegli
occhi neri di quella ragazza, Eleonora, che continuava profondamente a guardarmi sebbene non comprendesse l’inquietudine che mi imprigionava
il cuore.
In verità negli anni trascorsi durante il mio
viaggiare, non avevo scordato quelle immagini, anche se spesso, durante le
fredde notti dove la solitudine e la nostalgia si facevano opprimenti, si trasformavano
in incubi, concretandosi in una domanda permanente, quasi assillante. Fu una
scelta ragionevole il decidere di partire? Dare spazio all’ansia della
conoscenza e della curiosità, fuggendo da quell’ ombroso
vicolo e dalla presenza di quella figura materna che ricamava le splendide
stoffe seduta sulla soglia di casa? Fu giusto lasciare la certezza di quel
mondo con il suo rassicurante ripetersi di regole e precetti o il canto
melodioso portato dal vento che accompagnava la fatica dei pescatori che
tornavano a casa al calar del sole, … abbandonare quel mare tanto amato dai
perenni colori mutevoli misteriosi e … quegli occhi, lo sguardo di quella ragazza che non ho mai dimenticato?
Dunque per cosa alla
fine decisi di partire? Per rispondere ad un impeto giovanile, al fascino dell’avventura
o del sapere? … Per scappare dagli incubi della mente o semplicemente per
sapere chi sono io? .... E perché nel cuore, da sempre mi ferisce
quest’inquietudine infinita, un sentirsi fuori del comune, non migliore di altri uomini,
ma diverso, un rendersi conto di
qualcosa d’unico, che mi obbliga a posare lo sguardo sulla realtà che mi
circonda con il desiderio struggente d’infinito?…
A differenza delle volte precedenti, l’urlo del mio
cuore fu così possente che mi scosse dalla prigione dei pensieri.
Non so quale fossero le cause,
se l’aria gelida del mattino che mi tagliava la faccia o il peso dei ricordi,
ma gli occhi mi si riempirono di lacrime e cominciai sommessamente a piangere
come un bambino impaurito.
Avevo paura di aver fallito, di aver consumato la
vita dietro un sogno, di aver inseguito un miraggio, il ricatto di un desiderio
infantile. Stavo tornando alla città d’origine sicuramente più ricco di esperienze e saggezza, ma senza la certezza di esser
riuscito a rispondere alla domanda che da sempre percuoteva il cuore: per che
cosa ho consumato la vita giorno dopo giorno … e io chi sono?
Sprofondato com’ero nei pensieri, non mi accorsi
della vicinanza dello zio.
Senza proferire parola, mi si accostò e riuscì ad
incrociare il mio sguardo. Un istante o forse un secolo, poi, con commovente
sorpresa, mi abbracciò.
L’inquietudine e la paura che avevo rilevato nel
mio animo erano conosciute anche dal cuore dello zio.
Quel suo gesto affettuoso fece diventare la sua
compagnia più cara e familiare.
Molti uomini considerano l’esperienza del viaggiare
come un possibile punto di fuga dall’omologazione della propria esistenza dove
tutto risulta catalogato e definito senza più sorpresa.
Un’occasione per scappare dai propri fallimenti quotidiani o
dallo scandalo delle proprie paure, fragilità ed incoerenze. Altri,
invece, intendono quest’esperienza come l’opportunità per indagare sul
significato della propria vita.
La linea di separazione tra questi due
atteggiamenti spesso si congiunge e si confonde. Quale delle due posizioni
riuscirà a prendere il sopravvento, si scoprirà solo al termine dell’impegnativo
peregrinare, quando tutte
le ragioni si prospetteranno in un colpo solo davanti ai nostri occhi in maniera
palese.
Così, se è stato doloroso lasciare la gente amata,
la propria casa e decidere di partire per il lungo viaggio con il continuo
rischio di perdersi, ben più ardimento ci vorrà ora per desiderare di tornare al
punto di partenza.
L’ordine del cammelliere attirò ancora la mia
attenzione.
Era necessario fare una sosta per far riposare gli animali.
Colsi l’occasione e cercai nella bisaccia che portavo al collo il mio quaderno su cui ogni giorno appuntavo
meticolosamente tutta l’esperienza vissuta nel corso del viaggio. Magari,
pensavo, questi appunti un giorno potrebbero essere
ripresi, diventare materiale di lavoro se mi trovassi con il problema di
progettare una metropoli, dei ponti o dei palazzi….
Sfogliando lentamente le pagine del quaderno non
potei fare a meno di constatare che ormai avevo
molto materiale
descritto ed appuntato. Durante il lungo peregrinare per la vastità del
territorio continentale, avevo imparato a conoscere e a descrivere molte città.
Le figurazioni grafiche riportate sulle mappe,
sembravano confermare quei luoghi come l’opera della realizzazione del genio di
una mente, o l’esito del forte braccio di un principe conquistatore, o più
semplicemente del caso, le cui ragioni risultavano
incomprensibili e ormai perse nel dedalo del tempo.
Certe città pertanto rimasero incise in modo
indelebile nel mio animo, altre furono dimenticate senza indugio e in tempo
molto breve.
Talune venivano ricordate
come insoliti luoghi urbani, dai profili inconsueti e dai nomi impronunciabili:
come quella di Estebhan la città dai tetti d’oro, che
all’alba o al tramonto irradiava la luce riflessa del sole, facendo brillare
gli occhi color turchese delle ragazze; o Sybar la città
dagli alberi parlanti, che durante la giornata narravano ai propri abitanti la
storia delle tradizioni del proprio popolo affinché rimanessero saldi nelle
proprie convinzioni; o quel luogo drammatico, testimone delle grandi battaglie
di un tempo, come il Rione Crociato d’Akko, dove gli abitanti,
per essere più vicini al cielo, utilizzavano, come strade per gli spostamenti
quotidiani i tetti piani delle case.
Altri siti urbani, con l’esibizione ostinata delle
meraviglie dei propri palazzi o lo straordinario equilibrio spaziale delle
imponenti piazze, cercavano inutilmente di affascinare e imprigionare il mio
animo viaggiatore, nella tela della bellezza.
Ma solo l’intrinseca capacità di suggerire la
risposta alla segreta domanda, che come ogni pellegrino mi portavo
nel cuore, trasformarono alcuni di questi luoghi in un ricordo vivo, costringendomi
a fissare i loro nomi nell’angusto spazio della mia memoria.
Rialzando lo sguardo dai miei pensieri, tornai a osservare con attenzione il quaderno e, con sorpresa, mi
accorsi che ogni qualvolta che cercavo di descrivere o dipingere quelle
località incontrate involontariamente rappresentavo un particolare della mia
città d’origine che era rimasto impigliato nelle pieghe dimenticate della
memoria affettiva e, ora, in quella circostanza, su quel foglio poteva
dispiegare con forza le proprie ali.
Una buffa insegna commerciale di una
osteria dipinta con grazia sull’intonaco sbrecciato del muro esterno, il
cromatismo improvviso e acceso di una casa dai sottili balconi che
assomigliavano gli occhi socchiusi di una avvenente fanciulla, le tonalità del
fuoco in grado di illuminare il cielo all’imbrunire, la torre gialla del faro
posta all’apice del porto, segno e ultimo avamposto del mondo conosciuto: erano
tutte sequenze, dei piccoli fotogrammi apparentemente casuali, che ora, giunto
al termine del viaggio, formavano l’ intreccio dei ricordi.
Così, dovetti riconoscere che, sul mio quaderno,
avevo continuato a rappresentare, in modo inconscio ed ossessivo, solo quei
particolari del mondo conosciuto, della mia città.
Con sgomento alzai lo sguardo in cerca della
presenza rassicurante dello zio.
“Guarda, -gridai preso
dallo sconforto- ho disegnato i luoghi incontrati e ogni immagine descritta mi
rimanda a visioni che mi portano sempre al punto di partenza, alla nostra
città…. A che è servito dunque tutta questa fatica, la solitudine di questi lunghi anni trascorsi, il freddo patito, la calura
del deserto se quello che ho descritto erano immagini già viste e racchiuse
nella mia memoria?
Tutto è stato inutile”. La risposta dello zio fu
illuminante: “Mentre percorrevi le città e indugiavi su qualche elemento che ti
riconducesse con la memoria ai luoghi ed ambiti già conosciuti, non riducevi la
qualità dell’incontro con quelle novità. Al contrario, questo era il metodo
ragionevole per iniziare un lento ma profondo rapporto con quel mondo
affascinante così diverso che si proponeva. Solo il
rispetto reciproco delle proprie identità e la tua continua fedele memoria di
quelle relazioni di dipendenza, d’appartenenza alle tradizioni, al proprio
territorio d’origine, ha reso possibile l’incontro.“
L’irreale silenzio accompagnato dal frinire delle
cicale, calò su di noi come un pesante tendaggio.
Era il tempo che si offriva al mio cuore perché
avessi modo di capire.
Il sole del mattino batteva forte sulla bianca
strada e sebbene non fosse ancora superato mezzodì, i colori che ci
circondavano strillavano già il loro abbaglio.
La lunga pausa s’interruppe con un sospiro dello
zio sussurrato tra sé e sé:“Marco, non è questo il vero
interrogativo che porti nel cuore. Non trattenerlo.”
Aveva ragione.
Ciò che mi costituiva formando la mia persona con
una storia ed un’identità, non era solo un rapporto fedele con la città natale
e il suo territorio, ma la crescente consapevolezza di una totale dipendenza a Colui che, chiamandomi per nome attraverso l’amore dei miei
genitori, mi aveva donato la vita in un preciso arco temporale, in quel
territorio unico ed affascinante e in quella città tanto amata e mai scordata.
Questa era la grande
richiesta sul destino che in tutti questi anni mi accompagnava: non dimenticare
di essere stato voluto e scortato nel dipanarsi degli eventi della storia.
Nell’ incessante errare nei territori conosciuti e
da scoprire, più di una volta ho rischiato di perdermi nel labirinto della
vita, dimenticando il mio vero nome e l’identità che mi formava il carattere e
la mia storia.
Spesso erano circostanze piacevoli a distrarmi come
il profumato abbraccio di qualche graziosa fanciulla,
o il sentimento di ansia e di paura che riempiva la mente quando venivano
attraversati luoghi talmente vasti che i limiti e confini si confondevano nel
labile tremolio dell’orizzonte.
Ma non posso fare a meno di rilevare, che nulla di
questo era stato in grado di estirpare il grido nel cuore,
indomabile e sconsolato. Dovevo sempre riprende il mio
cammino per poter rispondere a quella bramosia che mi bruciava l’anima.
Ancora l’ordine del cammelliere richiamò la mia
attenzione.
Il viaggio doveva riprendere, ed io lentamente e
con fatica cercai di celare nella bisaccia i miei pensieri e le mie apprensioni.
In verità, il tentativo si dimostrò vano. Oramai
l’impeto degli stessi era divenuto inarrestabile.
Tempo addietro, quando iniziai il cammino della
vita nella baldanza giovanile, il desiderio di diventare protagonista della
storia della mia vita, mi accompagnava quotidianamente quasi fosse
una ossessione. Volevo vivere in modo intenso ogni circostanza che l’esistenza
mi avrebbe offerto.
Così durante il lungo viaggio imparai,
a mie spese, a vivere come un mendicante, segnato dalle ferite inferte dalle
battaglie e dalla propria fragilità, attraverso le quali, con stupore, si affacciava
la presenza del Mistero che da sempre mi accompagnava. Il volto famigliare
dello zio, lo splendore struggente del risveglio della natura di ogni mattina, la memoria delle case, dei vicoli, dei
volti e lo sguardo intenso di quella ragazza, la bellezza del mondo incontrato,
erano tutte tracce di quella presenza del Mistero e, con pazienza giorno dopo
giorno con consapevole certezza, diventarono piccoli tasselli fondamentali
della mia esistenza, educandomi fino a diventare una persona.
L’esperienza vissuta in tutti questi anni rilevò
l’impossibilità di vivere nella solitudine questo rapporto personale con il
Mistero. Il metodo con cui il Mistero mi accompagnava era
sempre attraverso i volti e le circostanze che la vita mi offriva. Era
palese che la mia esistenza necessitava della costante
compagnia di uomini che, con discrezione, avessero la capacità d’invitarmi a proseguire
nel cammino intrapreso, anche quando, e capitava spesso, affogavo
nell’apparenza delle cose. Uomini come lo zio, che sembravano essere capaci di
guardare oltre l’orizzonte finito.
Dunque il mio
viaggiare in tutto questo tempo non era stato un fallimento.
Grazie agli incontri straordinari carichi di novità
e soprattutto alla vicinanza sapiente dello zio, ero stato educato a diventare
una persona adulta capace di gioire e piangere con una ragione.
“ Marco, …. Vieni a guardare”.
Quella volta fu il richiamo dello zio a farmi
rialzare la testa dalla prigione dei miei pensieri.
Lo trovai in piedi in cima al Grande altopiano di Raynken, e in silenzio fissava con grande
attenzione l’orizzonte. Non mi soffermai ad osservare la sua figura, o
quanto stesse compiendo.
Avevo imparato il metodo. Così rivolsi subito il
mio sguardo nella direzione additata dallo zio e, in fondo all’orizzonte, nella
foschia della giornata, apparvero evidenti, i segni tenui, un po’ indefiniti, ma riconoscibili di una città.
Non una qualsiasi, o di quelle che ancora
chiedevano di essere scoperte, ma la nostra città, il punto di
origine del nostro viaggio.
“Siamo tornati Marco” sussurrò con emozione lo zio,
senza distogliere lo sguardo su quel luogo, come rapito da quel
evento che aspettava da chissà quanto tempo.
“Laggiù, si intravede la
nostra città…. Guarda come brillano ai raggi del sole le sue mura d’oro.
Immagina le sentinelle armate sulle torri a
scrutare attente l’orizzonte, gli alberi fioriti dei giardini ad ombreggiare i
giochi chiassosi dei bambini. Osserva la bellezza del paesaggio che la
circonda.
Ascolta il vento: non ti sembra di sentire una
musica a festa che risuona nella piazza o la melodia dolce dell’innamorato
sotto il balcone dell’amata, o la calda nenia avvolgente della ninna nanna
cantata dalla giovane
madre per addormentare il proprio piccino…”.
Io ascoltavo in silenzio come rapito e continuavo a
guardare.
Ero affascinato e mi commuovevo a sentire lo zio
raccontare del suo struggente desiderio di tornare, descrivendo esattamente ciò
che anch’io mi portavo nel cuore, ma non riuscivo ad esprimere.
Era quella la città da sempre attesa
e più volte cercata nel nostro lungo cammino.
Avevo trovato i natali in quel luogo e, nei lunghi
anni trascorsi in giro per il mondo, quella città l’avevo sognata intere notti
con appassionato desiderio, eppure, da solo, con i miei sforzi, con il mio coraggio o con la mia intelligenza, non sarei mai stato
in grado di riconoscerla.
Era necessario seguire l’indicazione appassionata
dello zio perché ciò che era evidente al cuore lo diventasse anche agli occhi.
Tornato sulla strada principale, lentamente,
raggiunsi il cammino della carovana che nel frattempo non si era arrestata.
Una diversa letizia mi scese nel cuore. Una
consapevole certezza che l’esistenza, pur segnata dalla fatica, dalla
sofferenza e dall’incertezza, sarebbe stata comunque
distinta da situazioni che
esprimevano il compiersi
di una promessa mantenuta.
Non mi sentivo più solo e ciò mi rendeva libero e
sereno nell’attraversare il tempo che la vita mi dava ancora da compiere.
Sebbene non fossi
ancora tornato nella città natale, già nel mio cuore albeggiava il sogno di ripartire.
Avevo la ragionevole consapevolezza che molto presto il desiderio per un altro
viaggio e di un’altra città mi avrebbe chiamato.
Questo è dunque il mio destino, che mi si è svelato
nel dipanarsi degli eventi della vita: un pellegrino che attraversando con
passione le meraviglie del mondo ne canta le lodi a colui che
ne è il Creatore.