Matteo
Gallenca
BOLIVIA
IL VIAGGIO
“Ascolta!”
Il padre aveva accompagnato Isaac fuori della porta e gli aveva spiegato perché
voleva portarlo con sé a Santa Fé. Erano sei mesi che
aveva lasciato la famiglia ed era andato nella regione di Santa Cruz a
lavorare, ora era tornato per lui e desiderava che il figlio lo seguisse. Gli
aveva spiegato che nel paese dove lavorava, le suore avevano una scuola e in
quella scuola avrebbe potuto continuare gli studi. Al pomeriggio, per pagarsi il vitto e l’alloggio avrebbe aiutato a
caricare le casse di frutta, riso e verdura sul camion del padrone che ogni due
giorni partiva di sera e dopo aver viaggiato tutta la notte le portava a Cochabamba. Isaac aveva ascoltato
in silenzio, poi era andato a letto.
Isaac era
il più grande di cinque fratelli e non era mai andato
oltre le case di Confienza che si trova sulla statale
che porta a La Paz. A Confienza
ogni settimana c’è il mercato e molti campesinos
portano prodotti della terra e animali a vendere. Suo padre a volte voleva che
il ragazzo lo accompagnasse. Si mettevano il giubbotto della festa e
raggiungevano il mercato con il camion risalendo la tortuosa strada che
aggirava i fianchi dei monti. Negli stretti tornanti a volte il camion pareva
viaggiasse sospeso sul nulla, quasi le ruote del camion mordessero aria e non
lo sterrato. Isaac in quei momenti aveva il cuore in gola per la paura, a volte
i camion non avevano più la terra sotto le ruote e finivano nei valloni
sottostanti. Nell’altopiano si moriva anche per quello e le numerose edicole e
altarini che si vedevano lungo le strade lo testimoniavano.
Il
ragazzo pensò alle parole di suo padre, avrebbe dovuto
abbandonare la sua casa, la valle di Tiquipaia e
scendere nel caldo territorio di Santa Cruz. Dormì malissimo e al mattino si alzò con i fratelli che vide andare a scuola. Per raggiungere Chillka Grande dove c’era
la posta medica e l’edificio scolastico che serviva tutta la zona, essi
dovevano camminare una mezz’ora attraversando cinque volte il torrente che
stava più a valle della loro casa.
Andò
accanto al recinto dove accudiva i lama e le pecore,
poi tornò in casa e guardò ogni cosa con attenzione. I mattoni sui quali erano
pelli di animali e dormivano mamma e papà, dalla parte
opposta le pelli e gli stracci sulle quali dormivano lui e i fratelli. L’aratro
di legno appoggiato al muro tirato su con mattoni di argilla
e paglia con il quale aravano due terreni coltivati a Quinoa
e dietro alla porta le pietre messe a circolo sul pavimento di terra dove sua
madre cucinava. Sua madre gli si avvicinò e gli porse una borsa che ella stessa aveva tessuto, gliela mise a tracolla e lo
abbracciò. Kelma, sua madre, aveva la pancia e
aspettava il sesto fratellino, nonostante ciò si accovacciò a terra dov’era
sistemato un rustico telaio e si mise a tessere una stuoia a colori vivaci. Non
aveva detto una parola riguardo al futuro di Isaac,
obbediva al marito, era conscia del suo ruolo: fare figli, accudire la casa,
seminare la quinoa, coltivare le patate e preparare il
charque, carne di lama tagliata sottile salata e
messa a seccare. Ora che Isaac andava via, aveva anche le bestie da accudire e avrebbe avuto meno tempo da dedicare alla confezione dei
tessuti. Si consolò pensando che in fondo tutte le
donne del villaggio facevano quello che faceva lei.
Il padre
li raggiunse, disse al figlio che era ora di andare e salutata la moglie si
avviò. Isaac lo seguì, non volle volgere lo sguardo alla casa e al villaggio, avrebbe pianto. Docile seguì il padre, solo attraversato l’ansa
del torrente e risalito il costone avrebbe potuto voltarsi, sapeva che le case
non erano più visibili, ma non lo fece. Raggiunsero Chillka
Grande e attesero il camion che li avrebbe portati a Confienza.
Da lì avrebbero preso un altro mezzo che avrebbe permesso loro di raggiungere
la città di Cochabamba. Dalla città ogni sera
partivano autobus che dopo aver viaggiato tutta la notte raggiungevano
la regione di Santa Cruz.
Isaac
guardò la vallata, il torrente che durante le piogge autunnali a volte non era
possibile attraversare, il colore giallo rossiccio dei campi di quinoa che era quasi matura e gli appezzamenti verdi
coltivati a patate. Chiuse gli occhi e rivide ogni cosa; tredici anni trascorsi
nella vallata di Tiquipaya sono una vita, della
vallata conosceva ogni dettaglio. Due anni prima erano stati
costruiti l’asilo, la chiesa e la posta medica. Il ragazzo aveva appena
riaperto gli occhi quando il camion arrivò, padre e
figlio vi salirono sopra pigiandosi con i campesinos
che già l’occupavano, e dopo un’ora di sballottamenti raggiunsero Confienza. La piazza e le strade erano occupate da chi
aveva portato i suoi prodotti a vendere e c’era animazione. La gente era
vestita a festa e i costumi colorati rallegravano il grigiore delle casupole
color terra, il colore dell’erba secca che copriva il fianco della collina e le
grigie rocce che oltre la strada andavano a perdersi
in un canalone. Seguì con lo sguardo una donna e un uomo che trascinavano
alcuni lama e che si fermarono poco lontano; l’uomo prese un animale e con un
fendente di coltello dietro il collo e un altro nella gola in un paio di
secondi lo uccise. Isaac pensò che suo padre era abile
nell’uccidere i lama senza farli soffrire, ma quest’uomo era più bravo ancora.
Altri arrivavano allo spiazzo da ogni parte, scendevano da camion e macchine e
si disperdevano tra la strada, le case e gli animali che occupavano ogni posto
libero.
Sacchi di
patate e cipolle erano accatastati in attesa di
compratori, sopra una stuoia vide l’oka, un tubero di
colore rosso che veniva coltivato sull’altopiano e vicino una giovane donna
vendeva abarca, sandali confezionati con la gomma dei
copertoni delle auto, che per il basso costo ogni campesinos
calzava.
Isaac era
sempre dietro suo padre, che, incontrato il capo del villaggio e uno dei
fratelli della moglie si mise a parlare con loro; poi sopraggiunto il pulmino
che aspettavano salirono e si ritrovarono a Pongo.
Sul
cartello verde collocato in posizione ben visibile Isaac
lesse: Pongo 4003 m. La piazzetta poco lontana era antistante la chiesa
e dietro c’era la collina coltivata in piccoli appezzamenti con una croce posta
sulla cima, oltre era il cielo. A Pongo non c’era mercato e pur essendo un
paese importante per essere sulla via che portava a La
Paz, era quasi deserto. Alcuni operai stavano
sistemando del materiale appena scaricato da un autocarro e un paio di autisti che avevano fermato i loro mezzi si erano
avvicinati a un chiosco che vendeva bibite e acqua.
Sopraggiunse
un pulmino sul quale Isaac e suo padre presero posto;
il paesaggio, man mano che la strada aggirava i monti, permetteva di guardare
lontano e mostrava le catene montuose che si perdevano a vista d’occhio: lo
sguardo del ragazzo osservava con stupore le vallate che si incuneavano tra
quelle montagne e non finivano mai; poi la strada cominciò a scendere.
Era un
susseguirsi di curve, a volte il pulmino sorpassava autocarri carichi che andavano a velocità ridotta e che avrebbero
anche loro raggiunta Cochabamba. Altre volte erano le
case di un pueblo ad attirare la sua curiosità, e in quei pochi minuti, il
pulmino sul quale egli viaggiava era come fosse fermo;
erano quelle case, quelle persone che vedeva a venirgli incontro. Ne vedeva il
grigiore, il colore della terra ovunque, in quei luoghi sapeva come si viveva,
tra quelle povere case conosceva la desolazione e la grama vita che gli
abitanti conducevano. Quasi sempre intorno erano
rocce, anch’esse grigie e marroni come il colore della terra, raramente si
vedevano alberi. Se lo sguardo correva sulle montagne
vicine anch’esse erano dello stesso colore.
Il
viaggio durò circa tre ore e finalmente il pulmino raggiunse il terminal degli
autobus e tutti scesero. Isaac non era mai stato nella città: i rumori,
l’animazione, i clacson che ininterrottamente erano azionati
dagli autisti dei taxi confusero la sua mente e si chiese come potessero tutte
quelle persone che gli passavano accanto essere indifferenti a tutto quel caos.
Il padre si avvicinò ad una bancarella e comperò due empanada, frittelle ripiene di carne, una la diede a Isaac
e l’altra la mangiò invitando il figlio
a fare altrettanto, poi si avviò verso il terminal e prenotò i biglietti per
Santa Cruz.
C’era tempo prima di partire e chiese a Isaac se voleva vedere il
mercato della Canchia, non attese risposta e si
avviò. Sant’Antonio è la zona di Cochabamba dove c’è
il più grande mercato della città. Si vende di tutto, gli autobus faticano ad aprirsi un varco tra la
gente, così come i taxi, così come chi cammina. Tra le grida degli ambulanti,
le carriole di chi vende, i venditori fissi, i
gelatai, e i numerosi stand dei mercati coperti è i caos. Isaac stava
appiccicato a suo padre per evitare di essere assorbito da quella marea di
persone che senza logica andava ovunque. Una donna che
vendeva del succo di frutta si avvicinò loro e il
padre ne comperò due perché potessero dissetarsi entrambi. Faceva
caldo, un caldo afoso e l’aria frizzante dell’altipiano era un ricordo.
Suo padre
volle che Isaac guardasse ogni cosa e lo portò a
vedere l’interno dei mercati coperti dove erano i numerosi venditori che si
contendevano in spazi piccoli e stretti, con la merce disposta ovunque, gli
eventuali acquirenti. Era un’impresa condividere lo spazio tra la lunga fila degli stand con quanti, compratori e curiosi, si ostacolavano
nel cercare di proseguire.
Spazi più
grandi erano riservati a chi aveva fame perché erano i
tavoli ad occupare gli spazi. Numerose erano le friggitorie dalle quali
emanavano odori diversi, che si mescolavano alle essenze delle spezie vendute
poco lontano. I sacchi di cereali, riso e farine erano un
insieme multicolore tendente al chiaro, in contrasto con il colore degli
strumenti musicali che si potevano osservare imboccando lo stretto spazio nella
lunga fila degli stand successivi. Isaac avrebbe voluto vedere meglio
ogni cosa ma era continuamente sballottato, spintonato
e faceva fatica a stare dietro a suo padre.
Era
ora di andare al terminal, il sole stava cercando di nascondersi oltre le montagne e chiudere la
giornata. Raggiunsero l’autobus sul quale sarebbero saliti, attesero che aprissero le porte per prendervi posto. Isaac era stanco
morto, aveva seguito il padre senza dire una parola ed ora sul comodo sedile
pensava a come sarebbe stata la sua vita. Si voltò verso il padre e chiese
perché dovesse andare a Santa Fé.
Subito il
padre non rispose, guardò fuori dal finestrino
l’andirivieni di chi saliva o scendeva dai numerosi autobus in attesa sotto la
pensilina, poi disse: “Ti sarebbe piaciuto continuare la scuola?”. Isaac rimase
silenzioso, a Chillka Grande la scuola finiva con le
primarie, chi voleva studiare e aveva i mezzi doveva andare nel collegio a Confienza e starci tutta la settimana. Pensò alla vita che
conduceva nella valle di Tiquipaya, aiutare sua
madre, portare al pascolo i lama e le pecore, i giorni uguali. Certo chi
studiava aveva possibilità di andare in città, di istruirsi, significava
trovare un lavoro che gli permettesse di vivere
meglio… Rispose che gli sarebbe piaciuto.
“Vedi che
ho ragione a portarti lontano. Non mi diverto a lavorare dieci ore al giorno e chinare la schiena nelle risaie, ma ho deciso di
fare questa scelta perché spero che il governo conceda altre terre e, se siamo
fortunati e riesco ad averne a sufficienza da diventare un allevatore, faccio
venire tutti a Santa Fé”.
L’autobus
si mise in moto e Isaac volse lo sguardo verso il finestrino. Era buio, vide
solo le luci della città che nel volgere di una mezz’ora svanirono. Guardò un
vecchio raggomitolato su se stesso con la barba bianca e il capo sotto un
cappellaccio, dietro di loro una donna stava sistemando il sacco che aveva
portato sull’autobus, poi si mise ad ascoltare il dialogo tra due giovani che
stavano parlando, non comprese quello che dicevano, pensò fossero “Aimara”, egli era un Chequa e il
loro idioma era diverso. La maggior parte dei viaggiatori si era allungata nei
sedili e stava dormendo, una madre si era messa ad allattare un piccolo che con
gli occhi chiusi poppava sereno.
Dopo tre
ore l’autobus si fermò, la maggior parte dei viaggiatori
scese e si avviò verso un luogo di ristoro poco illuminato ove si poteva
mangiare. Molti sedettero ai tavoli e subito piatti di zuppa furono portati a
soddisfare la fame di quelli che dal mattino non avevano ancora mangiato. Anche
a Isaac fu portato un fumante piatto di zuppa, il
padre volle che mangiasse, doveva arrivare a Santa Fé
in salute e con la pancia piena. Doveva presentarlo al padrone e dimostrare che
suo figlio poteva lavorare come un adulto.
Ripreso
il viaggio, anche Isaac si addormentò. Il sonno non durò a lungo e si svegliò
pensando alle parole del padre e al lavoro. Egli non aveva mai avuto padroni,
ora in una città lontana doveva accettare di avere un padrone e obbedire a ogni comando. Fu colpito da quel pensiero e il suo cuore
ebbe una stretta tale che per alcuni secondi non riuscì a deglutire la saliva
che gli si era salita alla bocca, che sentì così amara da non poterla
trangugiare. Tossì, poi riprese a respirare normalmente e si disse che in fondo
era normale che chi lavorava dovesse obbedire.
Il viaggio,
tra brevi periodi in cui il ragazzo riuscì a dormire e lunghi periodi in cui i
suoi sensi erano storditi dall’aria viziata dai vari odori emanati dal respiro,
dal sudore e dalla merce sistemata tra ogni sedile, proseguì.
La
notte trascorse, poco
a poco la luce cominciò a illuminare il cielo fino a dare alla forma delle cose
la giusta dimensione.
Al
mattino avevano raggiunto Santa Fé. Scesero
dall’autobus e si ritrovarono nella piazza ancora semideserta. L’alba portava
ancora con sé il fresco della notte e contribuì a risvegliare del tutto Isaac.
Per raggiungere la fattoria che si trovava vicino al villaggio di Ajacuchio dovevano percorrere
circa sei chilometri e il padre si avviò. Il caldo non si fece sentire subito,
ma trascorsa una mezz’ora cominciò a far sudare Isaac. Egli non disse nulla e
continuò a camminare. Il sole si alzò a levante e illuminò tratti di foresta e
campi coltivati. Era un mondo diverso, non avrebbe immaginato di sentire il
caldo che ti appiccica i vestiti addosso: infatti indossava
ancora i pesanti panni di lana, e si fermò. Il padre lo aiutò a togliersi
quelli più pesanti e disse che gli avrebbe procurato abiti leggeri. Di giorno
la temperatura saliva anche a trenta gradi e il caldo si faceva sentire. Isaac
non era ancora abituato a quella temperatura e sudava copiosamente. Infine
raggiunsero la fattoria e, chiesto del padrone, lo raggiunsero
mentre stava dando ordini ad alcuni contadini. Fissò Isaac che gli veniva presentato, lo guardò come si guarda una vacca quando
la si deve comperare, e senza dire nulla salì su un cavallo e si diresse verso
una staccionata. Suo padre disse che era buon segno: “Il padrone se non è
contento di una cosa lo dice, penso che tu abbia fatto una bella
impressione! Vieni, ti accompagno nella baracca che ci hanno assegnato”.
Isaac
seguì il padre che si diresse verso una costruzione in
legno. All’interno due tavolati con dei materassi
erano il ricovero dei lavoratori alla fine di ogni giornata, ne indicò uno al
figlio e disse: “Questo è il tuo posto, io debbo andare a fare un lavoro più
tardi torno e ti accompagno a conoscere suor Federica e parliamo della scuola”
quindi uscì.
Isaac
rimase solo. Rivoli di sudore scendevano dalla fronte e inumidivano il volto e
il collo; si sedette sul bordo del materasso e guardò l’interno della capanna.
Il chiarore che penetrava al suo interno dall’unica finestra
attrasse il suo sguardo, ma fuori non vide quel che in realtà c’era, vide la
valle di Tiquipaya, vide sua madre intenta a
preparare i colori dei tessuti, la sua casa, i suoi fratelli e solo in quel
momento le lacrime a lungo trattenute furono libere di mescolarsi al sudore e
scendere copiose, libere di liberare quel groppo che sentiva dentro e che non
riusciva più a reprimere.