Maria Luisa Busti

 

Wilfredo

 

Come un gatto acciambellato al sole sto impigrendo oziosamente, e deliziosamente, su una delle panchine a disposizione dei visitatori. Ho guidato per buona parte della giornata per arrivare fin qui, ed ora desidero solo riposarmi, mentre osservo distrattamente i gruppi di turisti che le guide accompagnano a ranghi compatti, uno dopo l’altro, senza sosta. Ammiro da lontano la maestosità della facciata, ma non ho nessuna fretta di avvicinarmi ai bassorilievi, che costituiscono il motivo del mio viaggio, né tanto meno di seppellirmi nella muffosità degli archivi che sono venuto a consultare.

Questa giornata luminosa, di primavera avanzata, mi fa sentire ancora più acuta la mancanza di Susan. Vorrei dividere con lei la sensazione di trovarmi fuori dal tempo, sospeso in un luogo sconosciuto e remoto, che mi ha afferrato appena ho varcato il portale d’ingresso.

Adoro Susan, le sue forme voluttuose e il suo lungo, delicato, collo sul quale ondeggiano riccioli biondi sfuggiti allo chignon. Ho fatto una corte serrata alla mia bella principessa. La chiamo così per il suo aspetto aristocratico, ma Susan non è affatto altezzosa, è invece una persona semplice, un’anima delicata. So che in facoltà i colleghi disapprovano, pur senza manifestarlo apertamente, il legame tra un professore ordinario ed una assistente che ha la metà dei suoi anni, ma  me ne infischio. Per nulla al mondo rinuncerei a Susan.

 Sono uno spirito irrequieto, ho vissuto in cento posti diversi, cercando di dare un senso alla mia vita, e dissipando invece energie e tempo in esperienze frammentarie e di dubbio valore. Poi l’ho incontrata. Ho subito invidiato la sicurezza con cui vive la sua vita, le certezze che le costruiscono intorno una impenetrabile fortezza.

I ricorrenti periodi di angoscia e di vuoto esistenziale, che tanto mi hanno fatto soffrire in passato, sono scomparsi ora che Susan mi ha accolto nel suo mondo pacificato e sereno.

Il  pensiero della mia amata e il tepore delizioso del sole, sciolgono in me ogni tensione, anche la stanchezza è scomparsa, ed ecco, all’improvviso, mi trovo di nuovo sul mio cavallo da guerra, una bestia monumentale che ha appena terrorizzato e messo in fuga decine di nemici, in rotta disordinata e disonorevole.

Sto caracollando sul sentiero che costeggia il bosco, il gusto dolceamaro della vittoria riempie la mia anima. Rivedo i corpi squarciati dai fendenti, calpestati dagli zoccoli della mia colossale cavalcatura e chiedo silenziosamente perdono per le vite che ho tolto alla luce del mondo. Anch’io sono stato ferito, ma questo non fa che aumentare il mio orgoglio, e nemmeno sento il dolore del muscolo lacerato, che butta sangue ad ogni movimento, infradiciando il provvisorio bendaggio. Sono diretto alla Certosa; lì, qualche esperto monaco erborista saprà curare le ferite mie e dei miei soldati con uno dei suoi misteriosi impacchi d' erbe e ragnatele. Dopo lo strepito e le urla del combattimento, la campagna è assurdamente silenziosa. Vorrei che i villani uscissero dalle loro casupole, ad osannarmi e a salutarmi come un liberatore, quale in effetti io sono. Ma quei codardi se ne stanno rintanati, dopo aver certamente nascosto i maiali, il vino, i sacchi di farina, la moglie e le figlie bellocce. Ingrati. Sono stato pagato per questa impresa, è vero,

ma è altrettanto vero che ho rischiato senza paura la mia vita, e quella dei miei soldati.

Ad un tratto tutto vacilla dinanzi ai miei occhi, la luce sfuma dall’orizzonte, tra forti urla sconnesse distinguo solo il grido: tradimento!tradimento! E poi precipito in un gorgo senza fine.

D’improvviso sobbalzo disorientato, sulle prime non capisco dove mi trovo. Gli occhi inquisitori di un frate mi stanno scrutando ad un palmo dal naso.

-Si sente bene signore? Ha bisogno d’aiuto?-

Mi rendo conto di aver agito in modo scomposto, divincolandomi. La cartella con i prospetti e i disegni è ai miei piedi, i fogli disordinatamente sparsi sul selciato.

Sono davvero confuso, ma ecco, alle spalle del frate, la marmorea bellezza della Certosa mi soccorre. Capisco dove sono e mi ricompongo, ringraziando il frate che si allontana, lanciandomi di tanto in tanto occhiate sospettose. Mi avvio all’uscita e mi incammino per un viale alberato, cercando l’auto che ho posteggiato all’ombra.

E qui scopro che la macchina decide di piantarmi in asso, in questo posto fuori mano, quando è ormai quasi sera.

Il meccanico che riesco a trovare, per il momento, non può far niente per me. Non mi resta che raggiungere, irritato e maldisposto, la Trattoria con Alloggio che mi è stata indicata. La modesta locanda, per il suo aspetto casalingo e antiquato, mi restituisce un po’ di buonumore. Salgo in camera, telefono a Susan e la sua voce è, come sempre, un balsamo per i miei nervi sovraeccitati.

L’indomani mi sveglio riposato, carico di nuove energie e per prima cosa contemplo dalla finestra  la campagna quieta e silenziosa nella luce del mattino. I miei occhi indugiano sui filari di pioppi, sulle risaie, sui lontani campanili. Non mi stanco di guardare questa bella campagna lombarda, che ha per me qualcosa di vagamente familiare.

Arrivo alla Certosa e il padre guardiano mi riconosce, e mi scruta con diffidenza. Mi accompagna tuttavia dal Priore della Comunità al quale presento le mie credenziali e la richiesta del mio Dipartimento. Ottengo senza difficoltà il permesso di studiare i bassorilievi della facciata e i carteggi che li riguardano. Non sono mai stato qui prima d’ora, conosco la Certosa solo attraverso le fotografie dei libri d’arte e dal vivo la trovo davvero spettacolare: i marmi  della facciata emanano una luce perlacea, un chiarore d’alba  che mi riempie di ammirazione.

I miei occhi sono attirati da una teoria di fanti al seguito di pochi cavalieri; lo stato di conservazione di questo bassorilievo non è molto buono. Osservo il cavaliere che sembra  guidare il drappello. Le ingiurie del tempo   hanno risparmiato i lineamenti del viso, e il corpo muscoloso, ma il vessillo e il manto sono corrosi, gravemente compromessi. Mi avvicino per esaminare meglio l’opera, ma un fragore di zoccoli in corsa alle mie spalle mi fa sussultare.

Mi addosso alla parete, cercando di appiattirmi per non essere travolto, e mi copro d’istinto la testa con le mani quando il galoppo si avvicina, e l’ansito di uomini e bestie mi riempie le orecchie.

Poi mi volto a guardare.

Dietro di me, nulla.

Solo il padre guardiano mi sta fissando, e, se pur lontano, intuisco la sua espressione perplessa e preoccupata.

Nell’aria è rimasto un forte odore di stallatico, e un afrore di corpi sudati punge le mie narici.

Mi lascio cadere sulla panca di pietra, proprio dirimpetto al bassorilievo, ma l’originaria intenzione di studiare le sculture mi ha abbandonato. Come il giorno prima resto seduto al sole, confuso.

Più di ogni cosa vorrei che Susan fosse accanto a me. Mi sento completamente sperduto, alzo lo sguardo e la facciata monumentale della Certosa sembra inclinarsi su di me per inghiottirmi.

Chiudo gli occhi e li riapro solo quando sento dei passi;  mi vedo di fronte un frate massiccio, il cui corpo si frappone tra me e il sole, intercettandone il calore.

-Posso sedermi?- E mi si è già seduto accanto. Sono sicuro che l’ha mandato qui il padre guardiano, perché mi controlli da vicino.

Non posso dargli torto.

- So che lei è uno studioso di scultura prerinascimentale- Esordisce il frate scrutandomi con interesse al di sopra degli occhiali.- Il gruppo marmoreo di Wilfredo  non è dei più famosi- Indica l’opera dinanzi a noi. –Ingiustamente, a mio avviso, perché, come lei può vedere, si tratta di un lavoro davvero pregevole.-

Parliamo a lungo. Sono affascinato dalla competenza e dalla passione del mio interlocutore; scopro che si tratta di un’autorità nel suo campo, fondatore di una rivista di studi storici assai conosciuta in ambito universitario.

La sconvolgente emozione di poco prima sbiadisce, ora che mi trovo alle prese con argomenti che mi sono familiari. Mi sento al sicuro, sul mio terreno, e anche il frate sembra gradire la nostra conversazione. –Wilfredo era un condottiero, un uomo insolitamente leale per quegli anni, guidava un drappello di soldati di ventura che lo idolatravano per il suo coraggio. Pensi che fu ucciso poco lontano da qui, in un’imboscata. Per questo il Granduca volle rendergli onore facendolo immortalare in questo bassorilievo.

Lo esaminiamo da vicino e mi rendo conto del valore dell’opera, la cui paternità artistica è ancora incerta. Discutiamo di questo, mentre ci avviamo all’archivio.

- Il Duca si fidava ciecamente di lui, sulla sua reputazione non ci furono mai ombre, tranne forse…-

Il buon frate sorride imbarazzato e pentito di aver iniziato il discorso.

-Si tratta solo di una diceria, mai provata, sulla sua vita…, cioè sui suoi particolari…, ma non è il caso di riferirla-

Il frate è reticente ma io sono incuriosito e insisto.

-Ebbene, per la verità ci fu chi disse che se la faceva con la sua cavalla-

Una furibonda collera mi attorciglia lo stomaco, impedendomi a tutta prima di proferire parola. Infine esplodo, difendendo Wilfredo a spada tratta. Il frate mi guarda sorpreso: mi sono accalorato troppo e me ne scuso. Nemmeno io so perché ho difeso con tanta veemenza la reputazione di uno che non so chi sia, di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza, giungendo al punto di inventare di sana pianta testimonianze di autori a sua discolpa. Entriamo, ancora imbarazzati, in archivio e ci immergiamo nella lettura dei documenti, finché il suono appena udibile di una campanella richiama il mio compagno ai suoi doveri monastici. Anche per me è il momento di andare via, ma in officina mi aspetta una sgradita sorpresa: la riparazione della mia auto non è terminata (manca non so che pezzo di ricambio) ed io sarò ancora bloccato qui. Sto per lanciarmi mentalmente in una sequela di imprecazioni, quando mi balena in testa un’idea che subito mi conquista. Telefono a Susan e le chiedo di raggiungermi. Non è mai stata prima d’ora in questa parte d’Italia, come me del resto, e questa è una buona occasione per conoscere la Certosa. Ho bisogno della sua intuizione per andare avanti nel mio lavoro: mi sento vicino ad un’importante scoperta e le chiedo di assistermi con la sua conoscenza degli artisti che qui hanno lavorato, come risulta dai documenti in archivio.

Quando la mattina dopo la vedo scendere dal taxi, mi sembra ancor più giovane e seducente. Anche lei è felice di rivedermi, e, come due turisti, ci incamminiamo, mano nella mano, verso la Certosa.

Ho con me la cartella con i disegni e le osservazioni, poche, fatte nei giorni precedenti.

Visitiamo il monastero, i chiostri, il piccolo cimitero dei certosini. Susan è colpita dalla terribile semplicità di quelle sepolture anonime, perfettamente uguali, in cui ogni traccia di individualità è stata cancellata. Anch’io sono piuttosto scosso. Il frate archivista ci raggiunge con modi concitati, sembra avere una notizia importante per noi.

-Aveva ragione, sa; ho trovato la testimonianza giurata che scagiona Wilfredo da quell’accusa di cui si parlava ieri…e c’è di più: una disposizione del Duca che sanziona quattro bei tratti di corda a chi persiste nella calunnia.-

Lasciamo il frate alle prese con la nuova scoperta ed esaminiamo insieme i bassorilievi.

All’improvviso Susan mi guarda, si porta le mani al viso, che è impallidito. I suoi occhi passano velocissimi dal mio viso alla statua di Wilfredo, ben saldo sul suo cavallo da guerra, l’atteggiamento solenne e vittorioso. Sostiene che io e Wilfredo siamo due gocce d’acqua e chiama il padre guardiano che conferma, sorpreso, la somiglianza.

Susan è turbata, io disorientato. Sto per raccontarle gli inquietanti episodi dei giorni precedenti, ma uno strano ritegno me lo impedisce. Non è paura di non essere creduto, bensì qualcosa di più profondo: è il desiderio di conservare un segreto che mi è stato affidato. Completiamo infine tutti i rilievi e ci incamminiamo verso l’uscita. Sono stanco, distratto. Mi accorgo di avere lasciato parte del lavoro in una cartella vicino alla statua di Wilfredo, e torno a prenderla mentre Susan mi aspetta nella portineria.

Sono contento di essere solo; so che non tornerò più qui e sento il bisogno di congedarmi da Wilfredo. Mi avvicino, mi chino per prendere la cartella e mentre il mio viso è a pochi centimetri dal suo ecco che i lineamenti di Wilfredo si sciolgono dalla loro secolare immobilità, i suoi occhi si fissano nei miei e la sua bocca sigillata si piega in un magnifico, inequivocabile, fraterno sorriso.