Mariastella sta in piedi al centro della stanza gialla con un
foglio in mano, mentre lacrime si scollano automatiche dai suoi occhi. Non
vorrebbe piangere, non vorrebbe avere un motivo per farlo, eppure l’assenza
racchiusa in quelle righe, firmate Testavuota, sono
la sua disperazione.
5 marzo – ore 14
Il mio nome è Testavuota.
Percepisco il mio sé nella sua unità e unicità, Testavuota
senza alcuna discrepanza. Un nome composto, il mio: testa + vuota. Una testa la
ho, sotto questa pelle sotto questi capelli di paglia, una fronte,
discutibilmente intelligente o delinquente secondo i canoni lombrosiani,
occhi, naso etc. Vuota, però. Non la traccia di un’idea una parola un’immagine
vi si trovano, non una risposta. Mi perdo in questa vacuità. E la mia prima
azione mattutina è il pianto.
Se n’è andata a Moncalvo per
qualche giorno, anzi fino a data da destinarsi. Indecisa tra un convento sui
monti toscani, nel silenzio religioso, i raggi tra gli alberi, l’umidità delle
rocce ove dormì San Francesco prima di parlare agli animali. Tra la piccola
Rocca ove la dama americana all’inseguimento del marinaio di Gibilterra
incontrò l’amore d’un uomo al servizio degli ottoni della sua casa
galleggiante.
Il piccolo albergo è gestito da una coppia milanese
rifugiatasi nella tranquillità di questo borgo una decina di anni fa, dopo
fallimenti sentimentali e difficoltà lavorative; non, quindi, un romantico
escamotage contro le convenzioni cittadine.
Trasferitisi in questo albergo come soci e compagni,
si sono innamorati qui, sposati qui. La gentilezza regna tra queste pareti, nei
loro gesti, nella luce che filtra tra le tende di raso dai colori autunnali.
Al mattino servono la più sana e abbondante delle
colazioni: frutta di stagione, biscotti casalinghi e altrettante torte,
marmellate e mieli prodotti nelle vicinanze, latte fresco, succhi, tè, mentre
dalla stanza a fianco la moca sbuffa e il caffè sale col suo aroma. Nella sala
comune ci sono vecchie poltrone e sedie a dondolo, un giradischi degli anni ’50
e libri di viaggio e foto del Sudamerica.
Alla sera, quando Testavuota
rientra, sente profumi caldi di dolci appena sfornati provenire dalla cucina,
allora il suo stomaco inizia a brontolare di malinconia. Poi scrive.
6 marzo - ore 22.30
Sdraiata su un letto di coperte sul parquet del
bilocale di P. desidero essere su una panchina al sole a gambe incrociate bevendo
acqua tonica ascoltando musica brasiliana. Mi viene da piangere, senza sapere
perché, o forse il perché sta nel non sapere il perché. Una valanga di domande
senza risposte. Esiste l’amore? L’amore finisce? Cambia? Si può avere paura? La
solitudine è un riparo o una difficoltà? Non so più se lo amo. Desidero
scoprire cosa è giusto desiderare. Forse scomparire. Ma non lo so ancora, spero
che aspettando capirò, testavuota.
Mangiamo carne e verdure grigliate, io e G., in una
trattoria toscana, con un litro di vino rosso frizzante, e ascoltiamo i signori
al tavolo a fianco che elencano le più terribili malattie e tragedie familiari
con rassegnazione e tristezza. Poi iniziamo a parlare di una futura vita in uno
di quei paesi isolati di collina nell’entroterra marchigiano, dove coltivare
ortaggi e viti, produrre formaggi, leggere e dipingere tele giganti. Convinti,
eppure, che il richiamo della città si farebbe presto sentire, il bisogno di
caos almeno una volta al mese, di civiltà, di rumori, di facce, di velocità.
Testavuota è scappata. Vale una fuga quale metodo analitico
delle sue insicurezze amorose?
Cammina da sola per le vie del centro, infagottata in
una sciarpa di lana verde, intrecciata coi ferri dalla sua amica Mariastella. La vescica gonfia e il freddo e la sete e il
mal di testa dopo il pianto le riempiono i pensieri già affastellati nella
testa. Entra in un caffè per una spremuta. L’aroma, i barattoli di miscele dal
mondo, i cioccolatini e i pasticcini. Si siede ad un tavolo, tovaglia gialla e
un menu infilato tra finti bucaneve. Dal tavolo accanto e non solo, voci di
anziane donne che conversano e ridono e indicano e si pettinano i capelli
appena cotonati.
Un uomo in completo gessato è ritto dietro il banco,
insieme ad una donna nata in un film anni ’70; un ragazzo-elefante in camicia
bianca raccoglie le ordinazioni delle signore. Non ci sono quadri alle pareti,
solo mensole di liquori e cioccolatini e caffè, e vasi di fiori finti adatti a
diffondere un tocco di calore e colore.
Suona un cellulare. La signora dai capelli ramati col
rossetto della stessa tinta lo sfila dalla borsetta di lana viola e risponde
senza guardare il nome sul display.
“Ciao cara! – Sono a prendere un caffè – Tutto bene.
Grazie. Tu? – Grazie delle poesie, sono davvero belle, le farò presto leggere
anche alla mia Gioia, poi ti faccio chiamare da lei – Come? – Sì, davvero,
belle. – No, domani accompagno Ilaria a fare una visita medica; oggi non è
uscita, non se la sentiva. – Anche io gliel’ho detto: avrebbe bisogno di
staccare, di vacanze. Ho già trovato delle offerte per Lisbona, adesso ci
pensiamo, ci organizziamo. – Come? – Oh, grazie. – Allora telefona a casa nel
pomeriggio che ci siamo. Ciao, grazie, baci.”
Poesie. Lisbona. Vecchie signore cui si potrebbe
chiedere in prestito una dose di densa giovinezza. L’umanità manca di tempismo,
non apprezza il presente. Testavuota si distrae, per
sbrodolare pensieri sul suo diario.
7 marzo - ore 17
P. mi dice: Ti lascerei
tutta la libertà che vuoi. Si può trovare un equilibrio nuovo senza arrivare
alla definitiva rottura, non trovi? Stando soli dopo un po’ ci si sente davvero
soli, non è piacevole.
Non mi importa, se sentirmi sola è l’alternativa a
stare con qualcuno che non amo. Mi capisci? Tu non sei un palliativo alla mia
solitudine; io soprattutto non vorrei essere il tuo! Forse stare da soli per un
po’ ci sprona a fare nuove conoscenze e nuovi progetti…
Non so… Non so nulla… Mi dispiace…E dico banalità dal mattino alla sera. Però non
voglio forzarmi, non funziona dire che vorrei amarti, non posso stare con te
immaginandomi vite parallele. Sono un’immatura che ha bisogno di continui
stimoli e novità, mi è precluso il passaggio dall’innamoramento all’impegno,
dopo due anni è giunta la mia scadenza. Oppure è solo un cercare qualcos’altro
e quando si inizia a cercare qualcos’altro si pensa che l’amore sia finito.
Dopo essersi chiusi in un unico guscio mieloso d’illusione amorosa torna il
tempo di riaprirsi al mondo.
Abbiamo camminato due ore intere alla ricerca di un
parco dove dormire o parlare o leggere o cantare. Per sdraiarci finalmente su
un tavolo da pingpong a bruciare al sole. O giocare ai dadi e farlo perdere con
la fortuna della principiante delirante che rotola e ride di gioia. Vulnerabile
e debole, io, confusa ed emozionata. Arrabbiato, G., ferito indelebilmente
nell’orgoglio di campione. Gli accarezzo i capelli mentre rido a suo discapito,
lui vuole mordermi le mani. Ho dimenticato tutto, da quando G. mi ha baciata,
ho dimenticato di fare gli auguri alla mamma, di telefonare a P., di preparare
i pasti al mio cane. Sono diventata una testavuota,
una mente errante sola e persa che chiede di risvegliarsi da questo sogno
creativo emotivo.
Ma: questa è la causa del
mio allontanamento da P., o ne è l’effetto?
“La Michela è andata via senza
dirci neanche buonasera?!”
“Magari era di fretta… Magari noi non abbiamo sentito…”
“Ma lei è un po’ strana. A
volte non bada ai convenevoli.”
“Io l’ho sentita ieri dare
del Tu al giornalaio.”
“La Luisa, invece, lei dà
del Tu al fidanzato di sua figlia, da quando si sono incontrati la prima volta.
E anche lui lo stesso.”
“Ma la Luisa è un tipo
amichevole con tutti. Non dà del Lei nemmeno ai colleghi di suo marito, quando
li invita a cena, e non li conosce mica tutti.”
Mancano solo pettegolezzi
sul parroco e la perpetua, pensa Testavuota.
“Desidera?”
“Una spremuta, grazie,
senza ghiaccio.”
Il ragazzo-elefante le
sorride, ma non la guarda negli occhi, incantato sugli orecchini rossi pendenti
dalle sue orecchie piccole. Lei scrolla la testa per farli muovere, lui sorride
di più.
“Non riesco a dormire, la
ragazza del piano di sopra accende la lavatrice di notte, quasi tutti i giorni.”
“La signora sopra di me
sembra che pattina mentre fa le pulizie, sento rumori di ruote sul pavimento.
Ma almeno le fa di pomeriggio.”
“Siamo vecchie, care
signore: ci sentiamo di meno, ma ci infastidiamo di più. Così anche di notte
troviamo difficoltà nell’addormentarci!”
Arriva la spremuta, con la
ricevuta, e un nuovo sorriso del ragazzo-elefante.
Testavuota si volta verso l’ingresso, col bicchiere di spremuta
tra le labbra, incontra lo sguardo di P. che sta entrando. Lei gli ha detto di
non venire. Non saprebbe rispondere a nessuna delle sue richieste. Testavuota si è chiamata, e ancora non si è sbattezzata.
Confusione, indecisione. Ma non è lui. I suoi fantasmi la seguono dappertutto,
li trova negli sconosciuti, nei sogni notturni, nei cinema. Suona di nuovo il
cellulare di qualcuno, all’infinito, nessuno risponde.
Lo sconosciuto ha preso un
caffè al banco ed è già uscito. Anche Testavuota paga
la spremuta ed esce. Ma dopo una decina di passi sente alle spalle:
“Il cappellooo!”
“Oh, grazie!” corre indietro verso la porta, verso
quel ragazzo-elefante in camicia bianca che le sorride e le sfiora la mano
porgendole il cappello, che ovunque dimentica.
Torna a passeggiare in una Moncalvo
deserta ma illuminata, fredda ma stellata. Che può fare per capirsi? Le teorie
di Freud non le servono, il surrogato del padre, la copia del fratello; Elettra
che fa sesso con Edipo è un incesto? Il tabù dell’incesto è stato inventato per
stringere o non stringere alleanze fra tribù. Testavuota
vorrebbe riciclare le sue indecisioni e le apprese convenzioni sociali con
profondi rinforzati sentimenti.
“Finalmente una fanciulla colorata!” le urla un lavoratore
in divisa fosforescente. Lei sorride al buio, senza riconoscere il viso di lui.
“Ci vuole”, gli rimanda. Vorrebbe che i suoi colori
riuscissero a penetrarle nella pelle e nelle vene. Sangue colorato, idee
arcobaleno. Vorrebbe addormentarsi senza piangere questa notte. Complicato è
far combaciare le aspettative con i fatti. L’ideale di coppia quasi mai è
realizzabile; altrimenti non succederebbe che ogni coppia si crede la più
felice e poi finisce per separarsi. Difficile è non lasciarsi trasportare dal
turbine degli eventi, poi quando ci si scosta dalla linea comune non si
comprende se è perché ci si è risvegliati da un incantesimo o si è precipitati
in uno nuovo. Forse tutta la vita è un susseguirsi di incantesimi, di fasi di
sogno irriconoscibili nel momento in cui le si sta vivendo.
Testavuota torna nella sua stanza
gialla all’albergo dei milanesi.
“La chiave della 3, grazie…”
“Prego!”
Lo dice una voce che
incanta e addolcisce, con un sorriso debole nei lineamenti sgraziati di un uomo
dal naso appuntito e dal viso lungo.
“Come mai una fanciulla
triste è capitata nella città più piccola d’Italia?”
Testavuota tiene il silenzio per un
po’.
“Se non sono indiscreto…”
“Sono scappata per scoprire
che ho bisogno di novità per emozionarmi e continuare a piacermi. Sono scappata
da un’infatuazione e da un fidanzato.”
“Sto dando ospitalità a una
fuggitiva confusa dunque. Se vuoi approfondiamo l’argomento, se ti va di
parlarne, dopo cena…”, gli propone lui.
“Dopo cena, volentieri,
possiamo vederci di là. Magari però avrò voglia di parlare d’altro.”
“A dopo allora. Se non hai
ancora deciso dove cenare, ti consiglio un ristorante sotto il portico in
piazza, superate le scale qui di fronte: serve ottimi salumi ed il suo piatto
più famoso è riso e fagioli. Poi mi dirai…”
Testavuota ringrazia. Sale in camera,
sognando una cascata di acqua calda sulle sue spalle e la schiuma del sapone
sul corpo e il profumo delicato di una crema. E un materasso sotto la schiena
che prenderà le sue forme. Suona il telefono ma nessuna curiosità la smuove, né
alcun bisogno di comunicare. Assente, cade nel silenzio, imbastendosi addosso
un triste costume isolante. Scrive, senza accorgersi del richiamo del sonno,
fino ad addormentarsi.
7 marzo - ore 18.45
Mi alzo a prendere un cd, G. mi segue per cercare un
fiammifero, poi esce sul balcone. Accendo lo stereo e lo raggiungo, ma schiusa
appena la portafinestra sento tremare un: Fa freddo, stai dentro. Intravedo
solo un filo di fumo tessuto dalle sue labbra. Ho la testa vuota. Mi bacia sotto
la luna, senza lasciarmi il tempo di dire: C’è la luna pie... Ho il fiato
corto. Per me G. è l’idealizzazione della mia parte istintiva e artistica,
della leggerezza, della determinazione con passione nella leggerezza. Non so
perché sono venuta fin qui, ci ho impiegato anche mezz’ora per salire sei piani
di scale e sono senza forze, e la tua mansarda mi fa girare la testa. Volevo
chiederti se ti va di passeggiare. Vorrei chiederti un favore, ecco. Dimmi che
non vuoi incursioni nella tua vita, che ti importuno coi miei castelli, dimmi
che sei innamorato di una donna-clown che non sono io, che sei felice, che non
ti importa rivedere una bambina indecisa come me. Guardo in alto per ricacciare
indietro le lacrime, è un segreto che mi ha insegnato la mia amica Mariastella; ma non sempre funziona. Stavolta sì, sorrido,
mentre lui si avvicina, sempre di più. O sono io che mi avvicino. Ci
abbracciamo. Il tessuto del suo maglione viola sui polpastrelli della mano
destra. Poi le sue dita sulla mia guancia. Un altro bacio. Labbra
annientatrici, la sua saliva è un liquido velenoso creatore di sogni.
P. mi dice ti amo e io piango, capricciosa adolescente
colpevole.
Le macchie che trova sul cuscino al suo risveglio
possono essere facilmente riconosciute in quanto: lacrime. Trova anche una
melodia di Brian Eno che balla nella sua mente ancora
assonnata. Ma l’appetito vince ed esce per una cena di riso e fagioli.
Il cameriere più anziano indica a Testavuota
un tavolo vicino alla finestra. Lei si accomoda, ordina subito. Fiori rossi,
musica pop, gente impomatata, che viene a mangiarsi gli anni di troppo che si
ritrova tra le rughe del viso indesiderate.
“Sono arrivato tardi, scusate”, dice il signore
incravattato che si aggiunge al tavolo degli uomini in viaggio d’affari alle sue
spalle, “il treno è sempre in ritardo.”
Anche Testavuota era su quel
treno, ha sognato un treno in ritardo nel suo breve sonno. Un treno che separò
a metà un vagone durante il percorso, separando lei e P. per il resto del sogno
inconcluso. P. se ne andrà non sa dove. Lei si perderà in scale mobili colorate
indecisa tra il treno e il bus, indecisa tra il tornare e il partire.
Le giunge l’odore del fumo di un sigaro. Il vento
freddo attraverso la porta aperta. E il cameriere in papillon nero le porta un
calice e una bottiglia di Barbera fermo del Piemonte.
“No, sono andato al cinema ieri.”
“Io mi sono addormentato sul divano, mentre mia moglie
stirava rimpiangendo di avermi sposato.”
“Avete dei figli?”
“Per fortuna no.”
Arriva riso e fagioli, si perde la sentenza del marito
infelice, sulla fattibilità o meno di una separazione. Ma Testavuota
non vuole ascoltare. Osserva solo le pietanze quando il cameriere si muove alle
sue spalle: insalate miste e pesce alla griglia. Lei affonda il cucchiaio nel
riso, il naso nel calice.
Al ritorno incontra un piccione morto in mezzo alla
piccola via che la riporta all’albergo. La sorpassa un velo triste. Amore e
morte è un binomio sempreverde. Eppure dopo uno squilibrio può avvenire un
riequilibrio. Allora perché è scappata? Per camminare da sola per strade
sconosciute ruminando domande ed ipotesi, sensi di colpa e alternative
possibili?
Torna in camera, si mette a letto, ma non dorme.
7 marzo - ore 23
Vorrei sciogliere la sofferenza che sto causando a P.
in una chicchera di caffè bollente. Tritare i miei dubbi e rinnovare facilità e
felicità.
Invece mi affaccio alla finestra, il mio egoismo è
palpabile in quest’aria.
Verrà trovata il mattino seguente in cortile,
sdraiata, senza vita. Verrà avvertita la sua amica Mariastella
che ora legge le sue ultime schizofreniche frasi nella sua ultima stanza
gialla.