Roberta Garavaglia

Testavuota scappa

 

Mariastella sta in piedi al centro della stanza gialla con un foglio in mano, mentre lacrime si scollano automatiche dai suoi occhi. Non vorrebbe piangere, non vorrebbe avere un motivo per farlo, eppure l’assenza racchiusa in quelle righe, firmate Testavuota, sono la sua disperazione.

 

5 marzo – ore 14

Il mio nome è Testavuota. Percepisco il mio sé nella sua unità e unicità, Testavuota senza alcuna discrepanza. Un nome composto, il mio: testa + vuota. Una testa la ho, sotto questa pelle sotto questi capelli di paglia, una fronte, discutibilmente intelligente o delinquente secondo i canoni lombrosiani, occhi, naso etc. Vuota, però. Non la traccia di un’idea una parola un’immagine vi si trovano, non una risposta. Mi perdo in questa vacuità. E la mia prima azione mattutina è il pianto.

Se n’è andata a Moncalvo per qualche giorno, anzi fino a data da destinarsi. Indecisa tra un convento sui monti toscani, nel silenzio religioso, i raggi tra gli alberi, l’umidità delle rocce ove dormì San Francesco prima di parlare agli animali. Tra la piccola Rocca ove la dama americana all’inseguimento del marinaio di Gibilterra incontrò l’amore d’un uomo al servizio degli ottoni della sua casa galleggiante.

Il piccolo albergo è gestito da una coppia milanese rifugiatasi nella tranquillità di questo borgo una decina di anni fa, dopo fallimenti sentimentali e difficoltà lavorative; non, quindi, un romantico escamotage contro le convenzioni cittadine.

Trasferitisi in questo albergo come soci e compagni, si sono innamorati qui, sposati qui. La gentilezza regna tra queste pareti, nei loro gesti, nella luce che filtra tra le tende di raso dai colori autunnali.

Al mattino servono la più sana e abbondante delle colazioni: frutta di stagione, biscotti casalinghi e altrettante torte, marmellate e mieli prodotti nelle vicinanze, latte fresco, succhi, tè, mentre dalla stanza a fianco la moca sbuffa e il caffè sale col suo aroma. Nella sala comune ci sono vecchie poltrone e sedie a dondolo, un giradischi degli anni ’50 e libri di viaggio e foto del Sudamerica.

Alla sera, quando Testavuota rientra, sente profumi caldi di dolci appena sfornati provenire dalla cucina, allora il suo stomaco inizia a brontolare di malinconia. Poi scrive.

 

6 marzo - ore 22.30

Sdraiata su un letto di coperte sul parquet del bilocale di P. desidero essere su una panchina al sole a gambe incrociate bevendo acqua tonica ascoltando musica brasiliana. Mi viene da piangere, senza sapere perché, o forse il perché sta nel non sapere il perché. Una valanga di domande senza risposte. Esiste l’amore? L’amore finisce? Cambia? Si può avere paura? La solitudine è un riparo o una difficoltà? Non so più se lo amo. Desidero scoprire cosa è giusto desiderare. Forse scomparire. Ma non lo so ancora, spero che aspettando capirò, testavuota.

Mangiamo carne e verdure grigliate, io e G., in una trattoria toscana, con un litro di vino rosso frizzante, e ascoltiamo i signori al tavolo a fianco che elencano le più terribili malattie e tragedie familiari con rassegnazione e tristezza. Poi iniziamo a parlare di una futura vita in uno di quei paesi isolati di collina nell’entroterra marchigiano, dove coltivare ortaggi e viti, produrre formaggi, leggere e dipingere tele giganti. Convinti, eppure, che il richiamo della città si farebbe presto sentire, il bisogno di caos almeno una volta al mese, di civiltà, di rumori, di facce, di velocità.

Testavuota è scappata. Vale una fuga quale metodo analitico delle sue insicurezze amorose?

Cammina da sola per le vie del centro, infagottata in una sciarpa di lana verde, intrecciata coi ferri dalla sua amica Mariastella. La vescica gonfia e il freddo e la sete e il mal di testa dopo il pianto le riempiono i pensieri già affastellati nella testa. Entra in un caffè per una spremuta. L’aroma, i barattoli di miscele dal mondo, i cioccolatini e i pasticcini. Si siede ad un tavolo, tovaglia gialla e un menu infilato tra finti bucaneve. Dal tavolo accanto e non solo, voci di anziane donne che conversano e ridono e indicano e si pettinano i capelli appena cotonati.

Un uomo in completo gessato è ritto dietro il banco, insieme ad una donna nata in un film anni ’70; un ragazzo-elefante in camicia bianca raccoglie le ordinazioni delle signore. Non ci sono quadri alle pareti, solo mensole di liquori e cioccolatini e caffè, e vasi di fiori finti adatti a diffondere un tocco di calore e colore.

Suona un cellulare. La signora dai capelli ramati col rossetto della stessa tinta lo sfila dalla borsetta di lana viola e risponde senza guardare il nome sul display.

“Ciao cara! – Sono a prendere un caffè – Tutto bene. Grazie. Tu? – Grazie delle poesie, sono davvero belle, le farò presto leggere anche alla mia Gioia, poi ti faccio chiamare da lei – Come? – Sì, davvero, belle. – No, domani accompagno Ilaria a fare una visita medica; oggi non è uscita, non se la sentiva. – Anche io gliel’ho detto: avrebbe bisogno di staccare, di vacanze. Ho già trovato delle offerte per Lisbona, adesso ci pensiamo, ci organizziamo. – Come? – Oh, grazie. – Allora telefona a casa nel pomeriggio che ci siamo. Ciao, grazie, baci.”

Poesie. Lisbona. Vecchie signore cui si potrebbe chiedere in prestito una dose di densa giovinezza. L’umanità manca di tempismo, non apprezza il presente. Testavuota si distrae, per sbrodolare pensieri sul suo diario.

 

 

7 marzo - ore 17

P. mi dice: Ti lascerei tutta la libertà che vuoi. Si può trovare un equilibrio nuovo senza arrivare alla definitiva rottura, non trovi? Stando soli dopo un po’ ci si sente davvero soli, non è piacevole.

Non mi importa, se sentirmi sola è l’alternativa a stare con qualcuno che non amo. Mi capisci? Tu non sei un palliativo alla mia solitudine; io soprattutto non vorrei essere il tuo! Forse stare da soli per un po’ ci sprona a fare nuove conoscenze e nuovi progetti… Non so… Non so nulla… Mi dispiace…E dico banalità dal mattino alla sera. Però non voglio forzarmi, non funziona dire che vorrei amarti, non posso stare con te immaginandomi vite parallele. Sono un’immatura che ha bisogno di continui stimoli e novità, mi è precluso il passaggio dall’innamoramento all’impegno, dopo due anni è giunta la mia scadenza. Oppure è solo un cercare qualcos’altro e quando si inizia a cercare qualcos’altro si pensa che l’amore sia finito. Dopo essersi chiusi in un unico guscio mieloso d’illusione amorosa torna il tempo di riaprirsi al mondo.

Abbiamo camminato due ore intere alla ricerca di un parco dove dormire o parlare o leggere o cantare. Per sdraiarci finalmente su un tavolo da pingpong a bruciare al sole. O giocare ai dadi e farlo perdere con la fortuna della principiante delirante che rotola e ride di gioia. Vulnerabile e debole, io, confusa ed emozionata. Arrabbiato, G., ferito indelebilmente nell’orgoglio di campione. Gli accarezzo i capelli mentre rido a suo discapito, lui vuole mordermi le mani. Ho dimenticato tutto, da quando G. mi ha baciata, ho dimenticato di fare gli auguri alla mamma, di telefonare a P., di preparare i pasti al mio cane. Sono diventata una testavuota, una mente errante sola e persa che chiede di risvegliarsi da questo sogno creativo emotivo.

Ma: questa è la causa del mio allontanamento da P., o ne è l’effetto?

“La Michela è andata via senza dirci neanche buonasera?!”

“Magari era di fretta… Magari noi non abbiamo sentito…

“Ma lei è un po’ strana. A volte non bada ai convenevoli.”

“Io l’ho sentita ieri dare del Tu al giornalaio.”

“La Luisa, invece, lei dà del Tu al fidanzato di sua figlia, da quando si sono incontrati la prima volta. E anche lui lo stesso.”

“Ma la Luisa è un tipo amichevole con tutti. Non dà del Lei nemmeno ai colleghi di suo marito, quando li invita a cena, e non li conosce mica tutti.”

Mancano solo pettegolezzi sul parroco e la perpetua, pensa Testavuota.

“Desidera?”

“Una spremuta, grazie, senza ghiaccio.”

Il ragazzo-elefante le sorride, ma non la guarda negli occhi, incantato sugli orecchini rossi pendenti dalle sue orecchie piccole. Lei scrolla la testa per farli muovere, lui sorride di più.

“Non riesco a dormire, la ragazza del piano di sopra accende la lavatrice di notte, quasi tutti i giorni.”

“La signora sopra di me sembra che pattina mentre fa le pulizie, sento rumori di ruote sul pavimento. Ma almeno le fa di pomeriggio.”

“Siamo vecchie, care signore: ci sentiamo di meno, ma ci infastidiamo di più. Così anche di notte troviamo difficoltà nell’addormentarci!”

Arriva la spremuta, con la ricevuta, e un nuovo sorriso del ragazzo-elefante.

Testavuota si volta verso l’ingresso, col bicchiere di spremuta tra le labbra, incontra lo sguardo di P. che sta entrando. Lei gli ha detto di non venire. Non saprebbe rispondere a nessuna delle sue richieste. Testavuota si è chiamata, e ancora non si è sbattezzata. Confusione, indecisione. Ma non è lui. I suoi fantasmi la seguono dappertutto, li trova negli sconosciuti, nei sogni notturni, nei cinema. Suona di nuovo il cellulare di qualcuno, all’infinito, nessuno risponde.

Lo sconosciuto ha preso un caffè al banco ed è già uscito. Anche Testavuota paga la spremuta ed esce. Ma dopo una decina di passi sente alle spalle:

“Il cappellooo!”

“Oh, grazie!” corre indietro verso la porta, verso quel ragazzo-elefante in camicia bianca che le sorride e le sfiora la mano porgendole il cappello, che ovunque dimentica.

Torna a passeggiare in una Moncalvo deserta ma illuminata, fredda ma stellata. Che può fare per capirsi? Le teorie di Freud non le servono, il surrogato del padre, la copia del fratello; Elettra che fa sesso con Edipo è un incesto? Il tabù dell’incesto è stato inventato per stringere o non stringere alleanze fra tribù. Testavuota vorrebbe riciclare le sue indecisioni e le apprese convenzioni sociali con profondi rinforzati sentimenti.

“Finalmente una fanciulla colorata!” le urla un lavoratore in divisa fosforescente. Lei sorride al buio, senza riconoscere il viso di lui.

“Ci vuole”, gli rimanda. Vorrebbe che i suoi colori riuscissero a penetrarle nella pelle e nelle vene. Sangue colorato, idee arcobaleno. Vorrebbe addormentarsi senza piangere questa notte. Complicato è far combaciare le aspettative con i fatti. L’ideale di coppia quasi mai è realizzabile; altrimenti non succederebbe che ogni coppia si crede la più felice e poi finisce per separarsi. Difficile è non lasciarsi trasportare dal turbine degli eventi, poi quando ci si scosta dalla linea comune non si comprende se è perché ci si è risvegliati da un incantesimo o si è precipitati in uno nuovo. Forse tutta la vita è un susseguirsi di incantesimi, di fasi di sogno irriconoscibili nel momento in cui le si sta vivendo.

Testavuota torna nella sua stanza gialla all’albergo dei milanesi.

“La chiave della 3, grazie…

“Prego!”

Lo dice una voce che incanta e addolcisce, con un sorriso debole nei lineamenti sgraziati di un uomo dal naso appuntito e dal viso lungo.

“Come mai una fanciulla triste è capitata nella città più piccola d’Italia?”

Testavuota tiene il silenzio per un po’.

“Se non sono indiscreto…

“Sono scappata per scoprire che ho bisogno di novità per emozionarmi e continuare a piacermi. Sono scappata da  un’infatuazione e da un fidanzato.”

“Sto dando ospitalità a una fuggitiva confusa dunque. Se vuoi approfondiamo l’argomento, se ti va di parlarne, dopo cena…”, gli propone lui.

“Dopo cena, volentieri, possiamo vederci di là. Magari però avrò voglia di parlare d’altro.”

“A dopo allora. Se non hai ancora deciso dove cenare, ti consiglio un ristorante sotto il portico in piazza, superate le scale qui di fronte: serve ottimi salumi ed il suo piatto più famoso è riso e fagioli. Poi mi dirai…

Testavuota ringrazia. Sale in camera, sognando una cascata di acqua calda sulle sue spalle e la schiuma del sapone sul corpo e il profumo delicato di una crema. E un materasso sotto la schiena che prenderà le sue forme. Suona il telefono ma nessuna curiosità la smuove, né alcun bisogno di comunicare. Assente, cade nel silenzio, imbastendosi addosso un triste costume isolante. Scrive, senza accorgersi del richiamo del sonno, fino ad addormentarsi.

 

7 marzo - ore 18.45

Mi alzo a prendere un cd, G. mi segue per cercare un fiammifero, poi esce sul balcone. Accendo lo stereo e lo raggiungo, ma schiusa appena la portafinestra sento tremare un: Fa freddo, stai dentro. Intravedo solo un filo di fumo tessuto dalle sue labbra. Ho la testa vuota. Mi bacia sotto la luna, senza lasciarmi il tempo di dire: C’è la luna pie... Ho il fiato corto. Per me G. è l’idealizzazione della mia parte istintiva e artistica, della leggerezza, della determinazione con passione nella leggerezza. Non so perché sono venuta fin qui, ci ho impiegato anche mezz’ora per salire sei piani di scale e sono senza forze, e la tua mansarda mi fa girare la testa. Volevo chiederti se ti va di passeggiare. Vorrei chiederti un favore, ecco. Dimmi che non vuoi incursioni nella tua vita, che ti importuno coi miei castelli, dimmi che sei innamorato di una donna-clown che non sono io, che sei felice, che non ti importa rivedere una bambina indecisa come me. Guardo in alto per ricacciare indietro le lacrime, è un segreto che mi ha insegnato la mia amica Mariastella; ma non sempre funziona. Stavolta sì, sorrido, mentre lui si avvicina, sempre di più. O sono io che mi avvicino. Ci abbracciamo. Il tessuto del suo maglione viola sui polpastrelli della mano destra. Poi le sue dita sulla mia guancia. Un altro bacio. Labbra annientatrici, la sua saliva è un liquido velenoso creatore di sogni.

P. mi dice ti amo e io piango, capricciosa adolescente colpevole.

Le macchie che trova sul cuscino al suo risveglio possono essere facilmente riconosciute in quanto: lacrime. Trova anche una melodia di Brian Eno che balla nella sua mente ancora assonnata. Ma l’appetito vince ed esce per una cena di riso e fagioli.

Il cameriere più anziano indica a Testavuota un tavolo vicino alla finestra. Lei si accomoda, ordina subito. Fiori rossi, musica pop, gente impomatata, che viene a mangiarsi gli anni di troppo che si ritrova tra le rughe del viso indesiderate.

“Sono arrivato tardi, scusate”, dice il signore incravattato che si aggiunge al tavolo degli uomini in viaggio d’affari alle sue spalle, “il treno è sempre in ritardo.”

Anche Testavuota era su quel treno, ha sognato un treno in ritardo nel suo breve sonno. Un treno che separò a metà un vagone durante il percorso, separando lei e P. per il resto del sogno inconcluso. P. se ne andrà non sa dove. Lei si perderà in scale mobili colorate indecisa tra il treno e il bus, indecisa tra il tornare e il partire.

Le giunge l’odore del fumo di un sigaro. Il vento freddo attraverso la porta aperta. E il cameriere in papillon nero le porta un calice e una bottiglia di Barbera fermo del Piemonte.

“No, sono andato al cinema ieri.”

“Io mi sono addormentato sul divano, mentre mia moglie stirava rimpiangendo di avermi sposato.”

“Avete dei figli?”

“Per fortuna no.”

Arriva riso e fagioli, si perde la sentenza del marito infelice, sulla fattibilità o meno di una separazione. Ma Testavuota non vuole ascoltare. Osserva solo le pietanze quando il cameriere si muove alle sue spalle: insalate miste e pesce alla griglia. Lei affonda il cucchiaio nel riso, il naso nel calice.

Al ritorno incontra un piccione morto in mezzo alla piccola via che la riporta all’albergo. La sorpassa un velo triste. Amore e morte è un binomio sempreverde. Eppure dopo uno squilibrio può avvenire un riequilibrio. Allora perché è scappata? Per camminare da sola per strade sconosciute ruminando domande ed ipotesi, sensi di colpa e alternative possibili?

Torna in camera, si mette a letto, ma non dorme.

 

7 marzo - ore 23

Vorrei sciogliere la sofferenza che sto causando a P. in una chicchera di caffè bollente. Tritare i miei dubbi e rinnovare facilità e felicità.

Invece mi affaccio alla finestra, il mio egoismo è palpabile in quest’aria.

Verrà trovata il mattino seguente in cortile, sdraiata, senza vita. Verrà avvertita la sua amica Mariastella che ora legge le sue ultime schizofreniche frasi nella sua ultima stanza gialla.