La primavera di Dolfina

 

Pierluigi Mondani

 

 

Il portone della stalla era rimasto socchiuso, e la brezza della sera, ogni tanto, lo faceva sbattere. Negli ultimi tempi capitava spesso che Tonio lo dimenticasse aperto. Come spesso capitava di vederlo tornare, lui, Tonio Di Matteo, nel cuore della notte, barcollante e canterino. Dolfina lo sentiva attraversare la stalla buia, sbattendo piedi e stinchi di qua e di là, inciampando tra mangiatoie e finimenti. Tutto accompagnato da accidenti e maledizioni in un dialetto stretto e biascicato.

Una volta, nemmeno gli era riuscito di salire i tre gradini che doveva fare per entrare in casa, e alla fine si era addormentato lì, nella stalla, sopra un mucchio di fieno. Accucciato fianco a fianco alla sua vacca!

Lei, Dolfina, alle stramberie del suo padrone non faceva più nemmeno caso. Per questo, indifferente, anche stavolta aveva cominciato a rannicchiarsi addosso alla parete più lontana dal portone. Si perché, alla sua età, gli spifferi li sentiva, eccome…

Dentro quelle quattro mura umide, poteva spostarsi liberamente, visto che ormai da tempo non stava più alla catena. Era rimasta solo lei, adesso, ad occupare la stalla. Non come una volta, quando viveva stretta con altre otto, financo dieci compagne. Poi c’era il maschio, legato nel suo recinto laggiù in fondo, e sempre qualche vitellino che gironzolava torno torno.

Ogni sera dunque, dopo la mungitura di mamma Rosaria, cominciava la ricerca del posto migliore per prendere sonno. Cambiava, a seconda della stagione: cercava il fresco d’estate, quando il sole durava più a lungo e le mosche diventavano più fastidiose, cercava il poco calore d’inverno, quando il buio arrivava presto.

Dalle finestre con le inferriate, filtrava la luce della luna, e Dolfina, sbirciando, poteva vedere accendersi le prime stelle della notte. Quello spettacolo, sera dopo sera, la incantava sempre, tanto che sarebbe rimasta volentieri a goderselo, non fosse stato per il torpore, che poco alla volta cominciava a pesarle addosso.

Finché il sonno, quello profondo, non la prendeva davvero. Allora Dolfina sognava, sognava di quando era piccolina, e i bambini di Tonio venivano a giocare con lei. Le salivano sulla groppa, uno alla volta, e gridavano allegri ad ogni sobbalzo. La imboccavano con le loro manine piene di fieno e le davano da bere da un grande secchio. Le mettevano delle corone di fiori al collo e poi la portavano fuori della stalla, facendola sfilare su e giù per il cortile. Era felice di stare con loro, quasi fossero fratelli di una stessa famiglia. In quei momenti, davvero, lei non si sentiva diversa.

Poi, piano piano, quei giochi si fecero più radi. I bambini sempre meno la venivano a trovare, finché neppure Margherita, la piccolina della cucciolata di Tonio, si fece più vedere alla stalla.

Dolfina non capiva. Non capiva perché tutto fosse finito così all’improvviso. Ma non stette molto tempo senza capire. Ci pensò il suo padrone. Lui e quell’enorme massa di muscoli che viveva all’altro capo della stalla. Seppe in un momento che anche lui, il maschio, era destinato a prendere posto nella sua vita, con prepotenza. Non molte volte in verità, solo una all’anno. Poi, ognuno tornava a vivere nel proprio spazio. Fatto di fieno, latte da mungere, qualche bastonata ogni tanto.

E un vitellino che usciva da lei, anche lui una volta l’anno. Avveniva così, con qualche spasmo di dolore, qualche muggito che lacerava l’aria della cascina, fin fuori, nei campi. Ma era roba che durava poco. Anche il cucciolo era destinato a stare poco con lei: qualche settimana accoccolato fra le sue zampe, e poi…poi spariva. Dopo, Dolfina, riprendeva la sua vita alla catena.

Stava proprio sognando, quando si svegliò di soprassalto: il portone della stalla sbatteva. Forte, troppo forte però, come se qualcuno a bella posta si stesse divertendo a fare rumore. Così, per il gusto di farlo. Era Tonio che tornava. Questa volta però non cantava, e nemmeno sembrava allegro. Dolfina, in quel buio non poteva vedere i suoi occhi, ma sentire lo poteva, eccome! Urla, strepiti come di un animale selvatico. E rumore di oggetti scagliati tutto intorno. Attraversò la stalla come una furia, e non fece nessuna fatica a salire i gradini per entrare in casa.

Passata anche stavolta.

Intanto, fuori di lì, cominciava a far chiaro, e dal portone rimasto aperto filtrava già la luce del mattino.

Attraverso lo spiraglio, insieme al chiarore, Dolfina sentì arrivare un profumo che non conosceva.

Qualcosa che somigliava all’erba nuova che le davano in primavera, quando, nella sua mangiatoia, trovava mischiati dei fiori, bianchi, gialli, azzurri. Adesso però era tanto più bello, perché le sembrava di sentire il profumo di migliaia di quei fiori. Profumi diversi, che si moltiplicavano, si mescolavano girando per la stalla, riempiendola di una delicatezza che non aveva mai provato prima. Le pareva di vedere quei fiori, uno per uno. Le roteavano davanti, dipinti con colori che neppure avrebbe immaginato. E insieme a quei fiori, era come se sentisse girare la sua testa, che si era fatta leggera, leggera…Da dove proveniva tutta quella meraviglia?

D’un tratto un richiamo, come la voce di un nuovo padrone che la chiamava fuori di lì. Proprio fuori, all’aperto, nel mondo che non vedeva più dal tempo dei suoi giochi coi figli di Tonio. Anzi no, non era un richiamo che arrivava dall’aia: più in là, molto più in là!

Allora, semplicemente, si girò su sé stessa e uscì. Uscì da quel portone che era rimasto aperto, quasi a volerla sfidare.

Arrivata alla porta, la spalancò con un colpo leggero delle corna, e si trovò fuori.

Le venne da pensare a quand’era stata l’ultima volta in cui aveva varcato quel confine, e quante cose fossero accadute da allora. Esitò, attraversata da un fiume di ricordi. Tutti uguali. Le sole gioie erano legate ai suoi giochi coi bambini di Tonio: quanto tempo era passato!

Poi, non trovò altro che potesse tenerla chiusa lì dentro. Solo giornate sempre uguali, che seguivano altre giornate sempre uguali…

Senza rendersene conto, aveva già percorso un bel tratto di strada. Tutti gli abitanti della cascina dormivano ancora, e nemmeno dal pollaio sentiva arrivare rumori. Eppure era giorno fatto, e la vita del cortile avrebbe dovuto essere già cominciata. Che strano! Forse, questo voleva solo dire che le abitudini di una vacca non corrispondevano a quelle dei suoi padroni…Camminava Dolfina, sentiero dopo sentiero, e presto si trovò in aperta campagna. Non aveva mai visto quei posti, e il suo cuore non era del tutto tranquillo. Batteva con un ritmo sconosciuto, ma che le piaceva. Finalmente la sua vista poteva spaziare più lontano di quelle pareti alle quali l’avevano costretta finora. Tutto era così verde adesso! Vedeva i fiori e l’acqua dei canali, vedeva i filari degli alberi e il sole che si stava alzando all’orizzonte. E, girandosi indietro, poteva vedere -lontana- anche la cascina di Tonio. Ma, soprattutto, sentiva di nuovo, dovunque intorno a sé, quel profumo.

La eccitava stare lì, circondata da tutte quelle cose meravigliose. Poteva bere quando voleva, ma l’acqua era tanto più fresca di quella che le davano alla stalla. Poteva brucare, strusciando il muso per terra e sentendo il solletico. L’erba di quei prati, umida di rugiada, era la più tenera che avesse mai assaggiato…

Camminava Dolfina, zampettando felice senza dar troppo retta a qualche dolore che sentiva arrivarle un po’ dappertutto. Pensò che fosse dovuto alla sua desuetudine a muoversi a lungo. Chissà, col passare dei giorni tutto si sarebbe risolto da solo. Vagabondava allegra nella campagna che ancora dormiva. Era cominciata la primavera, e intorno era tutto un fiorire, una voglia di rinascere.

Si fermò solo un attimo, quando vide, sullo stesso sentiero che aveva imboccato, venirle incontro una figura umana. Avanzava con un passo stanchissimo, e quando i loro sguardi si incrociarono, Dolfina vide chiaramente il volto di quella figura. Era una donna, ancora giovane. Non giovane come i bambini di Tonio, però il suo viso era bellissimo. Bellissimo ma pieno di un dolore che Dolfina non si spiegava. Non capiva come in una giornata così bella e lucente, qualcuno potesse provare tutta quella pena. Guardò meglio, e vide che la donna stringeva a sé un fagotto, e dentro quel fagotto stava un bambino, che ogni tanto piangeva. Singhiozzava così, senza forza, quasi che ognuno di quei pianti dovesse essere l’ultimo. E poi, altre figure. Di uomini, di donne, di vecchi che passavano distratti accanto a quella giovane e al suo bambino. Nessuno si fermava, nessuno le parlava. Solo, qualcuno allungava un braccio, e lasciava cadere qualcosa nella mano della ragazza. Qualcosa che luccicava. Subito dopo però, quelle figure tornavano a camminare di fretta, dritte per la loro strada. Avrebbe voluto fermarsi, Dolfina, consolare la tristezza di quei due visi. Se solo avesse potuto parlare la lingua degli uomini!

Proseguì ancora per un tratto di strada, e arrivò davanti a qualcosa che somigliava ad una delle gabbie che nella stalla usavano per tenere le bestie. Più grande però, molto più grande.

Dentro, non c’erano animali, ma pietre, grandi e di tutte le forme, di tutti i colori. Alte, larghe, lucenti.

E sopra ogni pietra brillava una piccola luce, come una fiammella. Dietro le sbarre di quella strana gabbia, vedeva tanti uomini e donne, assorti, silenziosi come se stessero pensando, o ricordando qualcosa di molto caro. Nessuno di loro sembrava felice, nessuno sembrava riuscire a godere per quella giornata che a lei sembrava splendida.

A testa china, proseguì, senza neppure rendersi conto di dove i suoi passi la stessero portando.

Fu un rumore di grida a costringerla ad alzare lo sguardo. Due uomini si stavano azzuffando, come un giorno aveva visto fare a due dei figli di Tonio. Quella volta però, era stato solo per finta, perché anche loro lottavano, ma sulle labbra avevano il sorriso dei bambini! E anche Dolfina, dentro il suo cuore, quella volta aveva riso, felice d’essere spettatrice di quel gioco buffo. Ora invece no, ora i volti di quegli uomini erano feroci, gli occhi arrossati, e i colpi che vibravano erano pieni di odio. E tutto intorno, altri uomini urlavano, come bestie, urlavano parole che Dolfina non conosceva, ma che le facevano paura.

Nessuno sembrava far caso a lei -una vacca in mezzo a degli uomini- così se ne andò. Ancora a testa bassa, forse per non vedere lo spettacolo di quella primavera che gli uomini sembravano non apprezzare.

Non si rendeva conto, Dolfina, che stava girando intorno, in un cerchio che inesorabilmente la stava riportando là da dove era venuta.

Ancora, vide un cavallo, un vecchio animale che tirava, stancamente, un aratro. E dietro di lui un uomo, forse più stanco del suo animale, che urlava, e lo batteva, rabbioso, con un bastone, per farlo avanzare. La povera bestia gemeva ad ogni passo. Se avesse potuto, certo sarebbe corso via da tutta quella fatica dolorosa. Avrebbe galoppato fin sulle colline che si vedevano all’orizzonte, e lì, incontrato i suoi simili, avrebbe vissuto con loro, lontano dal mondo degli uomini. Però, come accadeva per lei, anche quel cavallo era destinato a conservare i suoi desideri per la notte, dopo che il sonno lo prendeva. Quando viveva in un altro mondo.

La testa di Dolfina si faceva sempre più pesante, sempre più ciondolante. Era stanca, ma non sapeva se la sua stanchezza derivasse da tutta la strada che aveva percorso o dal dolore che aveva dovuto vedere. Aveva sempre creduto che fuori della stalla tutto dovesse essere più bello e tutti potessero vivere felici. Capì che non era così. Continuò a camminare, fino a sera, e furono molte le cose che vide ancora. Però, man mano che gli occhi vedevano, la memoria sembrava come dimenticarsi di trattenerle. Il sole stava ormai nascondendosi dietro un filare di pioppi, e la luce quasi era sparita all’orizzonte. Alzando lo sguardo, Dolfina vide a pochi passi da lei il muretto di cinta della cascina, col cancello che era rimasto aperto. Si fermò. Anche i suoi occhi adesso erano pensierosi, come quelli di un uomo. Stette così per qualche tempo, fin quando la luce intorno a lei svanì del tutto. Poi, col passo trascinato che solo una vacca sembra possedere, attraversò il cortile ed entrò nella stalla. Si andò ad accucciare in fondo, lontano dal portone, lontano dagli spifferi, lontano da tutta quella confusione, e, stanca, si addormentò quasi subito. Quella notte fece un sogno, e nel sogno c’era la ragazza col suo bambino, che sorrideva e cantava una canzone le cui parole anche Dolfina poteva capire. C’erano i due uomini, che non stavano lottando, ma parlavano allegri, camminando fianco a fianco. C’era il cavallo, che non gemeva e non tirava l’aratro, ma galoppava felice verso la collina. C’era Tonio, che sull’aia stava giocando coi suoi bambini. E c’era anche lei, Dolfina, che si scaldava in mezzo a un prato, al sole della primavera.

Il mattino seguente, quando mamma Rosaria fece per entrare nella stalla per la mungitura, si accorse del portone spalancato. Senza farci troppo caso, varcò la soglia, e fu a quel punto che il rumore assordante del frusciare di centinaia di ali l’avvolse. Erano fringuelli, storni, pettirossi, allodole che, sfiorandola, volarono a frotte fuori della stalla. Rosaria, sbigottita, avanzò qualche passo, aspettando come sempre di vedere la sagoma di Dolfina venirle incontro. Quella mattina però Dolfina non stava ritta sulle zampe aspettando la sua padrona. Era riversa, distesa a terra in una posa naturale, come se dormisse. Tutto intorno a lei, sistemati con cura, migliaia di fiori, d’ogni forma e dimensione. Fiori dai colori sgargianti e dal profumo intenso. Fiori gialli, rossi, azzurri, viola…

Era una splendida corona quella che circondava Dolfina, bella come quelle che i bambini di Tonio le preparavano per gioco, tanti anni prima. Una corona tutta per lei, che adesso stava facendo un lungo sogno.