DIARIO DI VIAGGIO
21/04/2008
Roberta Garavaglia
H 10.00
Esco con la valigia.
Il papà mi dà due baci.
Pare che tutti siano
dimentichi del mio compleanno, ma io vado a prendermi il regalo annunciato, ch’è una cena nella fertile Campania felix,
in Costiera Amalfitana.
H 10.40
Partenza. La Renault ha tolto ieri le gomme invernali,
sarà felice anche lei.
Sfilo le scarpe e metto il rossetto.
P. ha un cucciolo d’ippopotamo nell’occhio
destro che gli fa solletico. Io ho un lampione acceso sul mento, esploderà e inonderà
l’auto d’un liquido schifoso che si scoprirà essere il
vaccino contro la cattiveria umana.
Ascoltiamo Bob
mentre il sole gioca tiepidamente con le nuvole.
H 11.40
Leggo ad alta voce da un quotidiano gratuito
il bollettino dei decessi per incidenti stradali durante il weekend.
Passo alle recensioni dei nuovi film nelle
sale italiane. All’ossessione inconscia di Borges per
il labirinto.
Penso a quante aspettative ho costruito intorno a questo viaggio, a quanto
la realtà le asseconderà, a quanto di mio ci sarà in questa realtà. Prendo la
mano di P. sul pomello del cambio e gli sorrido.
H 13.35
Ponte sull’Arno.
“Una tartaruga!”
esclamo.
“Eh?!”
“Là, quella nuvola”
H 15.20
Sosta
gasolio + uomo in tuta grigia lava il vetro anteriore dell’auto.
Ho in bocca il
retrogusto del gelato al cacao e una Becks tra le
cosce.
H 16.10
Ci
impiego
sette squilli per scovare il mio cellulare nello zaino. È il cugino, chiama per
raccontarmi una storia triste.
Ieri ha conosciuto
la centenaria bisnonna della sua fidanzata. Le tette grosse e cadenti gliele ha compresse al petto ancor prima che pronunciasse il nome.
Donna Rosa, treccia bianca e viso rubicondo; sputacchia incantevoli aneddoti e
gesticola e ride. Donna Rosa che ha qualcosa da dire a tutti
e a volte anche da ridire.
Però, questa mattina
presto la fidanzata ha chiamato il cugino: la bisnonna ha avuto un incidente.
(Ed è disorientato
dal contrasto della vita che lei sprizzava e del silenzio che adesso l’avvolge.)
P. ci allega un’altra tragica coincidenza.
Mi racconta che tre anni fa la sua dirimpettaia, nonché
l’inquilina più gentile del condominio, una sessantenne emiliana portinaia in
pensione, bussò alla sua porta, a mezzanotte, appena tornata da una cena con la
sua migliore amica. Elegante, gli zigomi spennellati di fard, le migliori
scarpe rosse da ballerina di tango, P. l’aveva salutata mentre usciva da sola.
Rientrata, pensò che avesse dimenticato le chiavi in casa. Invece,
in casa, ci aveva trovato suo marito senza vita. L’indomani avrebbero
festeggiato trentacinque anni di matrimonio.
(Quale la morale? La
morale ha a che fare con la morte. La morale è quindi il senso della vita? È
un’impossibile ricerca, è una spinta al godimento di
ogni momento. Voglio emozioni.)
Mi viene in mente
una vecchia canzone di Alanis,
che si domanda: isn’t it
ironic? Don’t you think?
La canticchio sottovoce. “Come?!” mi chiede
P. La canto di nuovo.
Allora lui per farmi sorridere mi dice di un ragazzo che da anni vive senza cuore. Perché
la sua innamorata glielo ha rubato.
H 17.30
Stiamo tornando a
Milano, o è Milano che ci insegue: imprigionati in un
circolo spaziale di nebbia pioggia nuvole.
P. sente i primi
influssi dell’avvicinarsi della sua terra.
H 18.30
Sosta. Ci domandiamo: il System Tutor calcolerà una velocità media di 3 Km/h? Addirittura ci eliminerà dalle vetture in viaggio..? La Renault di P. e R.: non pervenuta. (?) Fottuto il Tutor! :)
H 19.00
Deliziosa
vegetazione. Vorrei del Limoncello locale.
Un’auto sta perdendo
lo specchietto. Lo scotch bianco pare una manica di camicia che dall’interno lo
sorregge mentre dondola.
Metto e tolgo gli
occhiali da sole, mangio una caramella alla liquirizia.
P. mi avverte che forzerà il suo accento napoletano per non
passare per ricco coglione milanese turista
sprovveduto.
Ricevo un sms, è Sara: 21 aprile.
Stoccolma è bellissima, sa di primavera. Ti auguro
novità, colori, momenti intensi. Buon compleanno, cara la mia
Gelato! Lo leggo sorridendo baciando più volte lo schermetto del telefono, intanto che P. mi prende in giro per
l’infantile soprannome affidatomi da Sara, allora io improvviso un finto
sguardo rabbioso, perché ci sono affezionata.
“Però
è vero che mangeresti sempre gelato…”
“…è vero che ho
sempre le mani gelide!”
“..e
che a volte non sei proprio affettuosa, eheh!”
Volerei domani ad
abbracciare Sara, rincorrendo una Stoccolma primaverile. Tornerei a comprare le
poesie che un vecchio vendeva a un angolo di strada, a
domandare il nome alla ragazza dagli occhi grandi che verniciava i muri nel
tunnel della metropolitana, rivisiterei con Sara la più antica città della
Svezia il cui nome mai riuscivo a memorizzare – Tutga,
Nugtan, boh… Sigtuna ha gravemente lavorato sui processi di
ancoraggio dei miei schemi mentali.
Si parla sempre di altri viaggi, quando si è in viaggio, viaggi passati,
futuri viaggi desiderati.
“Ci porto anche te
al Dansmuseet, vuoi?! Pure a trovare il piccolo
ragazzo francese che avevo baciato; leggeva sempre di notte, incredibilmente
insonne: conosce tutte le opere di Kafka.”
H 19.40
Svengo dall’appetito
davanti alla vetrina di una Cornetteria. Ma è nato prima il croissant o il cornetto? Me
lo domando, forse ad alta voce. Al bancone aspetta un
adolescente ciccione in cravatta viola. Fuori siede un giovane spacciatore glocale. Vicino a lui una ragazza in gonna nera parla al
cellulare: “Torno stasera. Va bene, ciao Amore. Metti giù tu. Sì. Ok, metto giù io.”
Penso all’immagine
di Haruki, del mondo che ruota nutrendosi della
solitudine delle persone.
Una signora in
vestaglia ci spia dal balcone di fronte.
Il mare spinge fino
a noi odore di salsedine. Siamo a Maiori.
H 20.00
Mi
incanto
sui colori dell’insegna dipinta su ceramica e non leggo il nome.
Una signora in
grembiule ci accoglie all’ingresso dell’Osteria e ci fa strada al piano di
sopra: luce soffusa, pochi turisti italiani, profumo di pesce grigliato.
Ordiniamo vino
bianco e southé di cozze, anche se, secondo intenditori, la stagione delle cozze comincia a
maggio fino a settembre. Il cameriere, quel gentile scugnizzo, ci
porta anche il pane, subito assalito per assecondare l’appetito.
Parlando del
“fascino dei luoghi comuni” e delle “linee generali”, di quanto è bella la
Costiera coi colori della primavera, subisco un
attacco da parte della mia malattia cronica: indecisione davanti al menu, un
elenco blu mare che mi incanta ad ogni riga. Ma la
sintonia con P. risolve la difficile scelta: scialatielli
ai frutti di mare.
“Ma
i vegetariani mangiano il pesce?”
“Quante volte ci
siamo fatti questa domanda..? Credo di sì,
dovrebbero…”
“Beh, dovrebbero mangiare
anche la carne!”
“C’è chi si spaccia
per vegetariano, perché non ama masticare fette di fiorentina, ma poi pasteggia
a prosciutto e salame…”
Sento freddo. Sarà
la brezza marina notturna che entra dalla finestra aperta.
Passiamo a discutere
del senso del freddo, e del senso del dolore, dall’autolesionismo alla
scarificazione:
“Sacrifici inutili”
“Magari di qualcuno
che ha un dolore più grande da cancellare…”
“O che si vuole autopunire”
“Aboliamo il senso
di colpa cristiano?”
“Peccatore!”
Il papillon nero ci porta poi un piatto di
grigliata mista da dividerci, ovviamente di pesce, con una fetta di limone per
condirlo.
Stiamo in silenzio
per un po’, ad ascoltare lo spada sul palato, ad ascoltare le altre voci nel
locale, le nostre ginocchia sfiorarsi sotto il tavolo.
(chissà se gli
abitanti di questi posti ne ammirano la bellezza ogni
giorno o se ne dimenticano…)
Il liquore ci viene offerto, il più voluttuoso che io abbia mai
sorseggiato: Limoncello, accompagnato da un assaggio
di liquore di alloro. Ce ne lascia una piccola brocca al tavolo, e allora
brindiamo e brindiamo e brindiamo.
“Al piacere della tua compagnia. E al piacere di stare da sola!”
“Ai tuoi 24 anni!”
“Alla vita e ai
viaggi”
“Alle persone che hanno lavorato per
ottenere questo meraviglioso Limoncello”. Che allontano dal mio bicchiere e dalle mie mani e dal mio palato
eccitato solo quando inizio a sentirlo nei muscoli delle gambe.
“Ubriacona”
“Ci sarà qualche dinamica problematica di fondo”
“Sì, in fondo al tuo
fegato”
Rido e mi riprendo il Limoncello per un ultimo mezzo bicchierino, pensando alla
saggezza delle parole di Calvino quando fa dire al Cavaliere che se infelice
è l’innamorato che invoca baci di cui non sa il sapore, mille volte più
infelice è colui che questo sapore gustò appena e poi
gli fu negato. Pienamente immedesimata recito il passaggio al mio
accompagnatore, sottolineandone il titolo improvvisato
“Ode al Limoncello”, per evitare di incorrere in
divertenti equivoci amorosi.
Ringraziamo
infinitamente la signora in grembiule, ch’è la cuoca,
anche se non può credere che a Milano non giungono i limoni giganti dalla
spessa scorza che crescono qui in Costiera; purtroppo. Lei è nata, è cresciuta,
è diventata donna nella anticamente-denominata-Reginna,
tra limoni e pescherecci, in una casa vicino alla chiesa S. Maria a Mare.
H 21.45
Bacio P. nel
parcheggio di Cetara vicino alla spiaggia vicino al
castello. C’è la luna piena.
Marinai e pescatori del XVI secolo passeggiano a riva, prima di recarsi alla
baldoria notturna nelle sconce bettole. Ma dal mare,
all’improvviso, emerge la turca figura di Sinan
Pascià, schiavista e trucidatore, per occupare con violenza l’antico centro.
Fuggiamo.
Conosco un anziano signore originario di Cetara, Luigi, trapiantato da cinquantasette anni nella periferia
a nord di Milano, che si sta lasciando morire di nostalgia e di rimorsi, per
aver abbandonato il placido borgo natìo, e il primo
amore adolescenziale, Linda, che non reagisce alle sue dolci insistenti lettere
fingendo amaramente di averlo dimenticato. S’erano incrociati al mercato,
flussi di sguardi tra pomodori, e baciati al cinema allo spettacolo del
pomeriggio; separati sulla banchina dell’unico binario alla stazione, Linda
piangeva e lui si sentiva colpevole di quelle lacrime che assaggiò teneramente
prima di dire “addio” e piangere fino a Milano. Piange ogni volta che lo
racconta, rincontrando quel vivido dolore, i capelli di lei
sotto i polpastrelli, il sale delle lacrime sul palato. Io lo
abbraccio e acconsento a leggere le sue lettere spedite a cui Linda non
risponderà, lottando per non farmi contagiare dalla sua ossessione per la
memoria.
H 22.30
Lungo il tragitto
curvilineo della Costiera, potrei rimettere senza rimpianti, ad ogni ansa della
lunga bastonata rocciosa.
È bellissimo, non è
l’alcool che vede; potrei piangere.
“Grazie, P.”
H 00.15
Babà e sfogliatella
davanti al mare, Chalet Ciro, Napoli.
La festa del mio
compleanno è un plurimo orgasmo culinario. Poi una
passeggiata sotto la luna, digestiva e distensiva come la sigaretta dopo il
sesso. La mano di P. nella mia, poi mi abbraccia, un abbraccio
piacevolmente infinito e infinitamente piacevole:
“C’è una mamma
giovanissima che spinge un passeggino”
“Ci sono
motociclisti senza casco che impennano”
“Ci sono due bambine
grasse”
“Ci sono due
stranieri”
“Siamo noi?”
Cerchiamo con gli
occhi la collina di Posillipo e ci incamminiamo
verso il Castel dell’Ovo.
Immagino una fontana
di fuochi artificiali fuoriuscire dal Vesuvio. Il 79 d.C. la
grande eruzione lo ha donato a Napoli, e i turisti ne comprano le cartoline,
delle sue pendici, della sua attività fumarolica. Il
vecchio Somma, sulle cui rovine è sorto, non se lo
ricorda più nessuno.
H 01.15
Il pantalone mi soffoca l’ombelico, alzo la
maglietta per ridere del mio ventre rigonfio. Che diviene un
pretesto per una dettagliata analisi scientifica dei più e più tipi di pancia:
incinta, scolpita, flaccida, pelosa, carnosa, etc.
Mi addormento in
auto. Sogno un caffè shakerato freddo e cremoso spolverizzato di cacao, un
idromassaggio rilassante con la schiuma che mi solletica i glutei e il collo e
l’adipe in crescendo della pancia. Sogno i soldati americani in Italia
nell’inverno del ’43, che mangiano anguria per il
pranzo di Natale. Sogno di avere ai piedi un paio di sandali
di cuoio scuro intrecciato. Sogno che la mia nonna
verrà presto dimessa dall’ospedale.