Il vascello con la vela
ammainata
Ester Stefania
Cesana
Di fronte al cancello d'ingresso di villa Bono giunsero
puntuali, alle nove, il Segretario comunale dottor Anzini,
Il dottor Anzini e Matteo
indossavano delle maglie a maniche corte già segnate dal sudore e
pantaloni di cotone leggero;
Matteo, un metro e ottanta di magrezza ereditata dal
padre, era in imbarazzo alla presenza del Segretario, un metro e sessantacinque
di buona forchetta e partecipazione indefessa a qualsiasi manifestazione
prevedesse una tavola imbandita.
La dipartita di Arturo Bono era all'origine di quell'appuntamento tra persone così diverse.
- Metteranno il naso ovunque e porteranno via i libri
di Arturo – pensava con rammarico
Matteo era l'unico a non mostrare interesse per il
contenuto di villa Bono. Distolse lo sguardo dalla figura rotonda di Anzini. Pensò alla propria tesi di laurea, al terzo
capitolo da completare. La proposta di quel lavoro “a progetto”
come aiuto bibliotecario, iniziato poco prima delle
vacanze di Natale dell'anno precedente e con scadenza alla fine dell'estate,
era giunta inattesa e gradita.
Quale futuro lo attendeva, una volta
divenuto “dottore in filosofia”?
Avrebbe potuto rimanere
nell'ambito universitario come assistente, oppure dedicarsi all'insegnamento
nelle scuole private, tanto per cominciare, oppure... Rimaneva, poi, quel
problema che da tempo rimandava di affrontare.
Il Segretario lo passò a Matteo con un cenno
della testa che significava: - Tieni, ti serviranno nei prossimi giorni per
entrare e svolgere il compito che ti è stato assegnato. -
Al termine del breve viale in beola grigia che divideva
il rettangolo di prato ove crescevano imponenti pini marittimi, cespugli di
sempreverdi e piante di rose i cui petali bianchi giacevano sparsi sull'erba,
la governante aprì anche la porta di ingresso, si pulì le scarpe
sullo zerbino con gesto usuale e chiese, come aveva fatto per anni, – E'
permesso? – ma stavolta non udì risposta.
Precedette i due uomini passando di stanza in stanza per
spalancare le finestre e le persiane rimaste chiuse da alcuni mesi. La luce
d'improvviso fendette l'aria stantia come una lama affilata e trasformò
la polvere in un turbine di granelli argentei che scomparivano al contatto con
le superfici dei mobili e del pavimento.
Matteo si sentiva a disagio, un intruso in una casa
privata del respiro della vita. Conosceva, della famiglia Bono, quello che gli
anziani del paese raccontavano ai tavoli del circolo sociale o tra le
bancarelle del mercato settimanale, colorando gli avvenimenti con un pizzico
d'invidia quando si trattava dei successi economici e mal celando il rimprovero
per le umane debolezze. Il capostipite Francesco, giunto in paese all'inizio
del Novecento, aveva trasformato l'attività di maniscalco in bottega per
la lavorazione del ferro. Il figlio Costantino, nonno di Arturo, aveva aperto
l'unica fonderia della zona e dato lavoro a molti uomini durante
Giuseppe Bono aveva lasciato un pessimo ricordo: uomo
collerico, capace di improvvisi e brevi slanci di generosità ed
altrettanto improvvisi, prolungati e violenti scatti d'ira se un collaboratore
o un familiare osava esprimere un parere diverso dal suo. Aveva sposato una donna
umile e sottomessa, Antonietta, più per necessità economiche e
per assicurarsi una discendenza che per amore, giacché la sua vera
passione era rimasto sempre il gioco d'azzardo, si trattasse
di carte, dadi o corse dei cavalli. Arturo era nato nel '57, dopo dodici anni
di un matrimonio che aveva messo a dura prova l'equilibrio mentale della donna;
i compagni di scuola lo ricordavano bambino serio e compito, buono e fin troppo
sensibile. Usciva di casa solo per andare a scuola o per accompagnare la madre alla
prima messa. Quando Giuseppe si era accorto che il figlio mostrava tratti
caratteriali tanto simili a quelli della moglie, aveva rinunciato a fare di lui
il “degno successore”, come ripeteva quando
si infervorava per aver vinto una piccola somma scommessa alle corse dei
cavalli, e aveva rivolto le sue attenzioni al secondogenito Alessandro, di due
anni più giovane.
Il fratello di Arturo non sembrava nemmeno figlio di quell' uomo
tanto sprezzante, se non fosse stato per lo stesso colore rosso acceso dei
capelli ed i lineamenti marcati: era portato per gli affari, per niente
collerico e sapeva trattare con clienti e fornitori. In pochi anni la fonderia,
sotto la sua direzione, era tornata ai fasti di nonno Costantino.
Giuseppe aveva negato al primogenito la
possibilità di studi classici: - Col latino non si guida un'azienda! -
aveva gridato paonazzo in volto, obbligandolo a frequentare la scuola per
ragionieri per farne un contabile da affiancare al fratello nella conduzione
della fonderia. Il ragazzo si era sottomesso, come in altre occasioni, al
volere del padre soprattutto per non dare un dispiacere alla madre.
Così Alessandro era subentrato alla direzione
della fonderia e si sarebbe sposato assicurando una discendenza ai Bono se un infarto non lo avesse stroncato, a ventotto anni, durante un viaggio d'affari a Parigi.
Antonietta lo aveva seguito pochi mesi dopo, annientata dal dolore per la
perdita improvvisa del figlio.
Arturo era rimasto nella villa di famiglia, subendo i
quotidiani rimproveri e le esplosioni d'ira di un padre incattivito dall'alcol
ove cercava consolazione ed oblio per quel destino tanto crudele da togliergli,
senza possibilità di appello, il “degno successore”.
In una giorno di nebbia, dopo
aver vinto una notevole somma alle corse dei cavalli - ormai trascorreva
all'ippodromo la maggior parte del tempo - Giuseppe Bono aveva abbondantemente
festeggiato al bar con i compagni di scommesse, ma all'uscita – malfermo
sulle gambe e nascosto dalla nebbia – era stato travolto da un'auto
morendo sul colpo.
A trentacinque anni Arturo si era ritrovato solo, nella
grande casa a due piani, con la governante signorina Rosa. Aveva venduto quanto
rimaneva della fonderia e continuato a condurre una vita modesta nonostante la
cospicua rendita.
Trascorreva le giornate nelle biblioteche del capoluogo,
tra i volumi delle Civiche raccolte d'Arte del Castello sforzesco
o alla Sormani; alla chiusura si trasferiva da corso
di Porta Vittoria nelle librerie del Duomo.
A volte non tornava la sera, poiché
Furono quelle pareti di volumi a stupire il Segretario
–
Riconobbe i volumi di Verne che
narravano le avventure di Capitan Nemo a bordo del Nautilus...
non riusciva proprio a distogliere gli occhi da tutti quei libri, sufficienti a
riempire un'intera biblioteca comunale.
Il pensiero del lavoro lo fece tornare al motivo della
sua presenza lì, assieme al Segretario.
Arturo Bono, nel testamento, aveva lasciato un vitalizio
per
Matteo non sapeva nemmeno dove fosse sepolto l'uomo, ma
poco importava giacché a lui in qualità
di aiuto bibliotecario era stata affidata l'incombenza di catalogare quei
volumi, riempire scatoloni di cartone e trasferirli alla biblioteca comunale.
L'esplorazione dell'abitazione era terminata ed il
Segretario, chiaramente deluso per non aver rinvenuto traccia di volumi antichi
e preziosi, congedata cortesemente
Per il Segretario andava bene. Raccomandò di
chiudere a chiave la villa al termine del lavoro e si diresse all'uscita con
passo veloce anche se l'ora di pranzo era ancora
lontana. Rimasto solo Matteo ripercorse le stanze. Cercava in filo logico che
aveva guidato quell'uomo nella scelta delle letture.
All'improvviso un'intuizione: tutti quei libri narravano viaggi. Reali od immaginari,
viaggi nel tempo, esplorazioni del territorio o della propria
interiorità. Ecco cosa avevano in comune “Il milione” e
“Moby Dick”,
“Il Signore degli anelli” e “I viaggi di Gulliver”,
“Memorie di Adriano” ed “Orlando”! Nell'ultima stanza
in fondo al corridoio un piccolo volume dalla copertina consumata attirò
la sua attenzione: “Edgard Lee
Masters - Antologia di Spoon
River”. Mentre lo estraeva dallo scaffale,
cadde un foglio ripiegato: era vergato con una grafia minuta, lievemente
inclinata a destra, con i tagli delle “t” brevi, posti alla base
delle aste.
La curiosità lo spinse a leggere il contenuto: la
parziale trascrizione di una poesia dell'”Antologia” proseguiva con
pensieri rivolti ad un uomo.
Molte volte ho osservato
Il marmo che hanno scolpito per me
Un vascello con la vela ammainata
Alla fonda in un porto.
In verità ciò non rappresenta la mia destinazione
Ma la mia vita.
Perché mi fu offerto l'amore e io fuggii
I suoi disinganni.
...
E ora io so che bisogna alzare le vele
E prendere i venti del destino
Dovunque conducano il vascello.
Dare il significato alla propria vita
Può finire in follia,
Ma la vita senza significato è la tortura
senza requie e
vago desiderio.
E' un vascello che anela al mare
E ne ha paura.
Mio amato Giorgio, quante volte ho riletto le parole di Lee Masters, fino ad impararle a
memoria. Sono state scritte proprio per me, una profezia della mia vita!
Quando ti incontrai la prima volta, nell'ufficio di mio
padre dove eri venuto a cercare lavoro, il tuo sguardo arrivò fino in
fondo alla mia anima come una freccia al centro del bersaglio.
Da quel momento seppi che non poteva esservi posto per
nessun altro nel mio cuore. Di certo non per le ragazze che mio padre avrebbe
voluto frequentassi, desiderando un buon matrimonio come
quello che lui (sic!) aveva avuto.
Ricordi i momenti trascorsi a sognare viaggi per il
mondo ed un futuro insieme?
Non riesco più a scrivere se penso a noi.
“Mi fu offerto l'amore e io fuggii i suoi disinganni” dice il
Poeta, ma la mia fu soltanto paura di vivere.
Per questo fosti tu a scegliere per entrambi, andando a
vivere in un'altra città, con un altro uomo. C'è un uomo al tuo
fianco, oggi? Te lo auguro. La paura di vivere mi ha impedito ogni gioia
profonda. E quando sono stato libero di scegliere ho rinunciato a
“prendere i venti del destino” cercando l'amore mercenario che
dà consolazione fugace. Ai ragazzi incontrati il tempo di una notte ho
raccontato di aver viaggiato molto, di conoscere luoghi e genti lontane, ma a
te posso confessare di non essermi mai allontanato da queste stanze troppo a
lungo. Mi mancò il coraggio di dispiegare la vela del mio vascello.
Perdona, almeno tu, un capitano così poco coraggioso. Con amore, tuo
Arturo.
Quando ebbe finito di leggere, Matteo
rimise il foglio nel libro ed il libro sullo scaffale, al suo posto.
Non si chiese quale forza ignota avesse
scelto proprio lui per quel compito di aiuto bibliotecario per poi
attrarlo come una calamita fino a quel volume, fino alla scoperta casuale del
segreto di una vita.
Immaginò, invece, che la volontà di vivere
nel non-detto e nel nascondimento i suoi sentimenti per un giovane coetaneo
anziché prendere i “venti del destino” avrebbe fatto di lui
un infelice proprio come Arturo Bono.
Uscì dalla villa dimenticando
di chiudere a chiave e giunse a piedi fino al parco. Chiamò col telefono
cellulare e quando sentì la voce di Angelo, suo compagno da alcuni mesi,
disse d'un fiato: - Andiamo insieme a Londra dopo che mi sarò
laureato? Traversiamo la Manica non con l'aereo, via mare. E' il momento
di dispiegare le vele del vascello. - Angelo non capì, ma sorrise
mentre rispondeva: “Sì, capitano, mio capitano!” -