Il vascello con la vela ammainata

Ester Stefania Cesana

 

Di fronte al cancello d'ingresso di villa Bono giunsero puntuali, alle nove, il Segretario comunale dottor Anzini, la signorina Rosa e Matteo, il giovane laureando assunto temporaneamente dall'Amministrazione comunale con compiti di aiuto bibliotecario. Da tempo non si ricordava un maggio così caldo nel Comune di A., alle porte di Milano.

Il dottor Anzini e Matteo indossavano delle maglie a maniche corte già segnate dal sudore e pantaloni di cotone leggero; la signorina Rosa, più freddolosa forse per l'età avanzata - aveva infilato nella gonna blu una camicetta con piccole margherite appena schiuse, coprendola con un golf di filo dai toni neutri.

Matteo, un metro e ottanta di magrezza ereditata dal padre, era in imbarazzo alla presenza del Segretario, un metro e sessantacinque di buona forchetta e partecipazione indefessa a qualsiasi manifestazione prevedesse una tavola imbandita.

La dipartita di Arturo Bono era all'origine di quell'appuntamento tra persone così diverse.

- Metteranno il naso ovunque e porteranno via i libri di Arturo – pensava con rammarico la signorina Rosa, per quindici anni governante in casa Bono – e presto trasformeranno la villa in un centro ricreativo dove le vecchie come me faranno la maglia raccontando la loro giovinezza ed i vecchi giocheranno a bocce o a carte, facendosi compagnia con un bicchiere di vino. Oppure trasferiranno qui gli uffici della Polizia locale che da tempo si lamenta della sede piccola e fatiscente. - Dietro gli occhiali da sole, gli occhi vivaci del Segretario sognavano: - Magari troveremo qualche volume di pregio. Sarebbe l'occasione per una manifestazione da pubblicizzare ampiamente sul territorio, e dopo la sfilata della Banda, il discorso del Sindaco e gli interventi dei critici letterari, Il vascello con la vela ammainata 1 sarebbe d'obbligo concludere con un buon pranzo.

Matteo era l'unico a non mostrare interesse per il contenuto di villa Bono. Distolse lo sguardo dalla figura rotonda di Anzini. Pensò alla propria tesi di laurea, al terzo capitolo da completare. La proposta di quel lavoro “a progetto” come aiuto bibliotecario, iniziato poco prima delle vacanze di Natale dell'anno precedente e con scadenza alla fine dell'estate, era giunta inattesa e gradita.

Quale futuro lo attendeva, una volta divenuto “dottore in filosofia”?

Avrebbe potuto rimanere nell'ambito universitario come assistente, oppure dedicarsi all'insegnamento nelle scuole private, tanto per cominciare, oppure... Rimaneva, poi, quel problema che da tempo rimandava di affrontare.

La signorina Rosa – poiché non si era mai voluta sposare, all'età di settantaquattro anni continuavano ancora a chiamarla così – estrasse un mazzo di chiavi dalla borsa blu, abbinata alle scarpe ed alla gonna, e lo porse al Segretario: - Questo è per Lei - disse con tono deferente mettendo di nuovo la mano nella borsa ed apprestandosi ad aprire il cancello con un secondo, identico, mazzo di chiavi.

Il Segretario lo passò a Matteo con un cenno della testa che significava: - Tieni, ti serviranno nei prossimi giorni per entrare e svolgere il compito che ti è stato assegnato. -

Al termine del breve viale in beola grigia che divideva il rettangolo di prato ove crescevano imponenti pini marittimi, cespugli di sempreverdi e piante di rose i cui petali bianchi giacevano sparsi sull'erba, la governante aprì anche la porta di ingresso, si pulì le scarpe sullo zerbino con gesto usuale e chiese, come aveva fatto per anni, – E' permesso? – ma stavolta non udì risposta.

Precedette i due uomini passando di stanza in stanza per spalancare le finestre e le persiane rimaste chiuse da alcuni mesi. La luce d'improvviso fendette l'aria stantia come una lama affilata e trasformò la polvere in un turbine di granelli argentei che scomparivano al contatto con le superfici dei mobili e del pavimento.

Matteo si sentiva a disagio, un intruso in una casa privata del respiro della vita. Conosceva, della famiglia Bono, quello che gli anziani del paese raccontavano ai tavoli del circolo sociale o tra le bancarelle del mercato settimanale, colorando gli avvenimenti con un pizzico d'invidia quando si trattava dei successi economici e mal celando il rimprovero per le umane debolezze. Il capostipite Francesco, giunto in paese all'inizio del Novecento, aveva trasformato l'attività di maniscalco in bottega per la lavorazione del ferro. Il figlio Costantino, nonno di Arturo, aveva aperto l'unica fonderia della zona e dato lavoro a molti uomini durante la Grande Guerra. Con il padre di Arturo, Giuseppe, dedito al gioco d'azzardo più che all'attività imprenditoriale, dopo la Seconda Guerra i profitti ed il numero dei dipendenti si erano notevolmente ridotti, nonostante il boom economico.

Giuseppe Bono aveva lasciato un pessimo ricordo: uomo collerico, capace di improvvisi e brevi slanci di generosità ed altrettanto improvvisi, prolungati e violenti scatti d'ira se un collaboratore o un familiare osava esprimere un parere diverso dal suo. Aveva sposato una donna umile e sottomessa, Antonietta, più per necessità economiche e per assicurarsi una discendenza che per amore, giacché la sua vera passione era rimasto sempre il gioco d'azzardo, si trattasse di carte, dadi o corse dei cavalli. Arturo era nato nel '57, dopo dodici anni di un matrimonio che aveva messo a dura prova l'equilibrio mentale della donna; i compagni di scuola lo ricordavano bambino serio e compito, buono e fin troppo sensibile. Usciva di casa solo per andare a scuola o per accompagnare la madre alla prima messa. Quando Giuseppe si era accorto che il figlio mostrava tratti caratteriali tanto simili a quelli della moglie, aveva rinunciato a fare di lui il “degno successore”, come ripeteva quando si infervorava per aver vinto una piccola somma scommessa alle corse dei cavalli, e aveva rivolto le sue attenzioni al secondogenito Alessandro, di due anni più giovane.

Il fratello di Arturo non sembrava nemmeno figlio di quell' uomo tanto sprezzante, se non fosse stato per lo stesso colore rosso acceso dei capelli ed i lineamenti marcati: era portato per gli affari, per niente collerico e sapeva trattare con clienti e fornitori. In pochi anni la fonderia, sotto la sua direzione, era tornata ai fasti di nonno Costantino.

Giuseppe aveva negato al primogenito la possibilità di studi classici: - Col latino non si guida un'azienda! - aveva gridato paonazzo in volto, obbligandolo a frequentare la scuola per ragionieri per farne un contabile da affiancare al fratello nella conduzione della fonderia. Il ragazzo si era sottomesso, come in altre occasioni, al volere del padre soprattutto per non dare un dispiacere alla madre.

Così Alessandro era subentrato alla direzione della fonderia e si sarebbe sposato assicurando una discendenza ai Bono se un infarto non lo avesse stroncato, a ventotto anni, durante un viaggio d'affari a Parigi. Antonietta lo aveva seguito pochi mesi dopo, annientata dal dolore per la perdita improvvisa del figlio.

Arturo era rimasto nella villa di famiglia, subendo i quotidiani rimproveri e le esplosioni d'ira di un padre incattivito dall'alcol ove cercava consolazione ed oblio per quel destino tanto crudele da togliergli, senza possibilità di appello, il “degno successore”.

In una giorno di nebbia, dopo aver vinto una notevole somma alle corse dei cavalli - ormai trascorreva all'ippodromo la maggior parte del tempo - Giuseppe Bono aveva abbondantemente festeggiato al bar con i compagni di scommesse, ma all'uscita – malfermo sulle gambe e nascosto dalla nebbia – era stato travolto da un'auto morendo sul colpo.

A trentacinque anni Arturo si era ritrovato solo, nella grande casa a due piani, con la governante signorina Rosa. Aveva venduto quanto rimaneva della fonderia e continuato a condurre una vita modesta nonostante la cospicua rendita.

Trascorreva le giornate nelle biblioteche del capoluogo, tra i volumi delle Civiche raccolte d'Arte del Castello sforzesco o alla Sormani; alla chiusura si trasferiva da corso di Porta Vittoria nelle librerie del Duomo.

A volte non tornava la sera, poiché la signorina Rosa trovava il letto intatto, ma entrambi erano di poche parole, lei non chiedeva e lui non giustificava l'assenza. Per quindici anni, fino al giorno in cui, mentre annaffiava le rose in giardino, un infarto lo aveva stroncato come il fratello, Arturo Bono aveva condotto agli occhi dei concittadini un'esistenza monotona e regolare. L'unico cambiamento evidente, nella villa, aveva interessato le quattro camere da letto al piano superiore, esclusa quella in cui dormiva, svuotate da mobili e arredi sostituiti da librerie, in breve ricolmate di libri.

Furono quelle pareti di volumi a stupire il Segretario – la signorina Rosa non vi faceva più caso – e a colpire Matteo mentre leggeva sui dorsi i nomi di grandi scrittori e poeti.

Riconobbe i volumi di Verne che narravano le avventure di Capitan Nemo a bordo del Nautilus... non riusciva proprio a distogliere gli occhi da tutti quei libri, sufficienti a riempire un'intera biblioteca comunale.

Il pensiero del lavoro lo fece tornare al motivo della sua presenza lì, assieme al Segretario.

Arturo Bono, nel testamento, aveva lasciato un vitalizio per la signorina Rosa ed indicata l'Amministrazione comunale quale erede dell'edificio e dei libri: l'uno da destinarsi alle necessità materiali della popolazione, gli altri per ampliare la biblioteca comunale. Aveva chiesto, infine, una lapide in marmo per la sua tomba, raffigurante “un vascello con la vela ammainata, alla fonda in un porto”.

Matteo non sapeva nemmeno dove fosse sepolto l'uomo, ma poco importava giacché a lui in qualità di aiuto bibliotecario era stata affidata l'incombenza di catalogare quei volumi, riempire scatoloni di cartone e trasferirli alla biblioteca comunale.

L'esplorazione dell'abitazione era terminata ed il Segretario, chiaramente deluso per non aver rinvenuto traccia di volumi antichi e preziosi, congedata cortesemente la signorina Rosa, si era rivolto a Matteo: - Quando vuoi cominciare? - - Ci sono così tanti volumi, occorrerà molto tempo. Posso iniziare oggi stesso? - Il giovane era impaziente - Nel pomeriggio passo nel suo ufficio a prendere il computer portatile e dal magazzino gli scatoloni di cartone, se per lei va bene. -

Per il Segretario andava bene. Raccomandò di chiudere a chiave la villa al termine del lavoro e si diresse all'uscita con passo veloce anche se l'ora di pranzo era ancora lontana. Rimasto solo Matteo ripercorse le stanze. Cercava in filo logico che aveva guidato quell'uomo nella scelta delle letture. All'improvviso un'intuizione: tutti quei libri narravano viaggi. Reali od immaginari, viaggi nel tempo, esplorazioni del territorio o della propria interiorità. Ecco cosa avevano in comune “Il milione” e “Moby Dick”, “Il Signore degli anelli” e “I viaggi di Gulliver”, “Memorie di Adriano” ed “Orlando”! Nell'ultima stanza in fondo al corridoio un piccolo volume dalla copertina consumata attirò la sua attenzione: “Edgard Lee Masters - Antologia di Spoon River”. Mentre lo estraeva dallo scaffale, cadde un foglio ripiegato: era vergato con una grafia minuta, lievemente inclinata a destra, con i tagli delle “t” brevi, posti alla base delle aste.

La curiosità lo spinse a leggere il contenuto: la parziale trascrizione di una poesia dell'”Antologia” proseguiva con pensieri rivolti ad un uomo.

Molte volte ho osservato

Il marmo che hanno scolpito per me

Un vascello con la vela ammainata

Alla fonda in un porto.

In verità ciò non rappresenta la mia destinazione

Ma la mia vita.

Perché mi fu offerto l'amore e io fuggii

I suoi disinganni.

...

E ora io so che bisogna alzare le vele

E prendere i venti del destino

Dovunque conducano il vascello.

Dare il significato alla propria vita

Può finire in follia,

Ma la vita senza significato è la tortura

senza requie e vago desiderio.

E' un vascello che anela al mare

E ne ha paura.

Mio amato Giorgio, quante volte ho riletto le parole di Lee Masters, fino ad impararle a memoria. Sono state scritte proprio per me, una profezia della mia vita!

Quando ti incontrai la prima volta, nell'ufficio di mio padre dove eri venuto a cercare lavoro, il tuo sguardo arrivò fino in fondo alla mia anima come una freccia al centro del bersaglio.

Da quel momento seppi che non poteva esservi posto per nessun altro nel mio cuore. Di certo non per le ragazze che mio padre avrebbe voluto frequentassi, desiderando un buon matrimonio come quello che lui (sic!) aveva avuto.

Ricordi i momenti trascorsi a sognare viaggi per il mondo ed un futuro insieme?

Non riesco più a scrivere se penso a noi. “Mi fu offerto l'amore e io fuggii i suoi disinganni” dice il Poeta, ma la mia fu soltanto paura di vivere.

Per questo fosti tu a scegliere per entrambi, andando a vivere in un'altra città, con un altro uomo. C'è un uomo al tuo fianco, oggi? Te lo auguro. La paura di vivere mi ha impedito ogni gioia profonda. E quando sono stato libero di scegliere ho rinunciato a “prendere i venti del destino” cercando l'amore mercenario che dà consolazione fugace. Ai ragazzi incontrati il tempo di una notte ho raccontato di aver viaggiato molto, di conoscere luoghi e genti lontane, ma a te posso confessare di non essermi mai allontanato da queste stanze troppo a lungo. Mi mancò il coraggio di dispiegare la vela del mio vascello. Perdona, almeno tu, un capitano così poco coraggioso. Con amore, tuo Arturo.

Quando ebbe finito di leggere, Matteo rimise il foglio nel libro ed il libro sullo scaffale, al suo posto.

Non si chiese quale forza ignota avesse scelto proprio lui per quel compito di aiuto bibliotecario per poi attrarlo come una calamita fino a quel volume, fino alla scoperta casuale del segreto di una vita.

Immaginò, invece, che la volontà di vivere nel non-detto e nel nascondimento i suoi sentimenti per un giovane coetaneo anziché prendere i “venti del destino” avrebbe fatto di lui un infelice proprio come Arturo Bono.

Uscì dalla villa dimenticando di chiudere a chiave e giunse a piedi fino al parco. Chiamò col telefono cellulare e quando sentì la voce di Angelo, suo compagno da alcuni mesi, disse d'un fiato: - Andiamo insieme a Londra dopo che mi sarò laureato? Traversiamo la Manica non con l'aereo, via mare. E' il momento di dispiegare le vele del vascello. - Angelo non capì, ma sorrise mentre rispondeva: “Sì, capitano, mio capitano!” -