Il Sogno

Roberta Garavaglia

 

Buonanotte.

Buonanotte da un futon nuovo e purtroppo incomodo che Carlos[1] mi ha insegnato a trasformare in galassie fluorescenti, in mondi energetici allucinanti. Il mio inconscio viaggia alla ricerca di se stesso e delle sue radici …………

Vorrei vedere T. cucinare gnocchi a mezzanotte e mangiarli mentre io quasi mi addormento. Ma di lui sono rimaste solo le chiavi del suo motorino sulla scrivania.

Lascio cadere una bustina di tè verde nell’acqua appena scaldata e mi scotto le dita sollevando la tazza, distratta distratta distratta. Prendo i biscotti al burro della nonna.

Lei apre il cassetto e fa una tovaglia di tutte le sue foto ben conservate, le indica con le mani rugose testimoni del tempo e mi smiela romantiche didascalie col suo alito da nonna; immagino la consistenza dello chignon che imbastiva ogni mattina nella sua stanza da nubile, e quella della sottana nera che si faceva sbottonare dal nonno nella timida intimità della cascina da sposina.

Sul ballatoio rimbombano i passi di una bimba che corre evitando le righe grigie disegnate dalle piastrelle.

Cammino svelta sulle punte, cammino sulle uova, cammino sui carboni ardenti.

Se schiaccio meno di due righe, domani il mio namorado mi offrirà una metà della sua merenda. Se ne tocco da tre a cinque dovrò aspettare ancora una settimana di densa impazienza. Se ne tocco più di cinque vuol dire che non mi vuole bene, allora io sarò triste e piangerò silenziosamente in cucina mentre la mamma taglia le cipolle per la cena.

Eva, al piano di sopra, prepara il caffè e si siede ad attenderne il brontolio. Lo prende con il papà, senza zucchero, comme d’habitude.

All’improvviso bussa al suo portone l’escremento luminoso di un rospo che ha inghiottito una lucciola[2]. Ma la sorprendente intensa grandezza non può essere assorbita dalla sua incapace mente sì minuta, incredulità ancorata alla incredibilità di un quasi impossibile atto poetico. I miracoli, vorrebbe imparare a vederli, la ragione non deve tacerli.

Papà: “Eva…una ragazza chiede di te”. Eh??

È già alla finestra: “Ho una cosa per te da parte di G.”

Il nome è abbastanza: “Arrivo!” Non ci crede. Corre. Un paio di scarpe, per favore! Le scale, la luce sulle scale, corre fino a. Margherite bianche. Profumano. È emozionata.

Una ragazza le ha portato delle margherite bianche perché G. l’ha cercata e trovata e detto di comprarle delle margherite bianche. Si perde tutte le altre parole che le dice sul portone di casa senza voler salire, solo si immagina questa ragazza con l’uomo nel cappotto blu, con la sua macchina, nella notte, da lontano, venire a consegnarle dei fiori…e G. in una notte ancora più lontana.

Si sveglia sudata nel suo letto sotto al piumone. Le margherite sono sul comodino. Allora è vero. Adesso ha dei fiori bianchi, da parte di un piccolo uomo con le mani grandi che vive sul lato opposto del mondo, cui sovente pensa. La poesia è un’azione creativa, le ha donato nuova energia curativa.

Una cravatta a pois svolazza al bordo della strada, abbandonata o perduta. Bambini comprano coni-gelato al gusto panna e vanno al parco-giochi. Ma restano impauriti  dal dondolare dell’altalena dall’erba dal vento. Restano immobili. Allora anche il mio cuore si immobilizza.

Perché mi lego alla gamba della mamma? Blocco, spavento.

Non voglio correre? Pura libertà in movimento, leggerezza nel vento, velocità respiro fermento.

Una signora vecchia, in una beige pelliccia che le incurva le spalle basse sotto un cappellino estroso multicolorato vistoso, prova uno scialle cerca un cappotto infila guanti; labbra rosse, palpebre d’argento.

Chissà quanto ha amato… Chissà quanto ha studiato... Chissà quanto ha penato…

Il suo figlioccio l’attende accanto al camino in salotto.

Ha i capelli come fili lunghi sottili dorati.

Giro, mi volto, giro, sguardo basso, sguardo oltre, giro, giro, in continuazione, scappo da un possibile contatto visivo coi suoi occhi sorridenti di luce attenzione espressione, per non accorgermi che… e farli accorgere che… che…

La mano destra gioca con le dita dei miei piedi al sapore di bagnoschiuma all’arancia, la mia; la sua si abbandona per caso o non per, sul parquet a due millimetri dalla mia, sento i peletti delle nostre falangine che si intrecciano e mi fanno intrecciare anche la spina dorsale con un tremore d’emozione che mi attraversa le vertebrine.

Emozioni regalate addensate da un sapore dolceamaro, una consistenza viva densa precisa che domani persisterà nei ricordi di un dì meritante avvalorato da queste emozioni regalate addensate da un sapore dolceamaro, una consistenza viva densa precisa che domani…

C’è una bicicletta sotto casa di T. Una bici rossa. Che non è la mia. Stretto nodo di gelosia.

Mi chiedo, allora: è il mio un amore egoista? Amore possessivo distruttivo?

O sentimento generoso disinteressato sconsiderato?

Come la tenera passione sconfinata di Martino, il conte diventato contadino, che s’è addormentato con il porcospino un mattino, nel suo orto qui vicino. Il suo amore è cura, e desiderio di cura. S’è addormentato tra le patate.

Una pertica dalla testa colorata e permanentata molleggia sulle ginocchia e muove le braccia come un pop-locker, balla al centro senza essere egocentrico; avvolto dalla musica avvolge la musica diventa musica e io lo osservo lo seguo lo applaudo lo inseguo.

Finché mi invita a far merenda da lui.

Orchestre di didjeridoo ad ogni angolo, anche la sua Litoria cerulea danza locking da quando è nata, lui mi versa del latte e mi dice: “Balliamo?”

Colleziona plettri e suona l’arpa.

Fa suonare un cd. Indossa una bombetta. Disegna onde invisibili e linee istantanee nell’aria che ci abbraccia, sorride e assottiglia gli occhi neri.

Mi guarda e dice che vuole vivere in pace e tu mi baci sulla bocca, che matta![3]

Mi regala gioia e non lo sa.

A mezzanotte siamo circondati da fuochi artificiali, da fontane colorate in cielo, e scoppi, vicini e lontani, luci danzanti. Profumo di caldarroste, di croccante; un ragazzo ci vende incenso alla menta.

Corriamo fradici di pioggia, incontriamo ragazze in bicicletta sotto bianchi ombrelli; colori e voci, gente esce dalle case con calici in mano e bottiglie di vino.

Pioggia. Ha gli occhi più neri sotto la pioggia.

Stiamo insieme fino al mattino, fino al pomeriggio, fino a.

Ciao.

Il mio ginocchio si tocca col suo sotto il tavolo. Quando poggio i gomiti lui vuole prendermi le mani. Polpastrelli, tremore.

Mi piace il suo profumo di pulito, di dopobarba, di pelle. Sotto al girocollo arancione come quello che indossavo io una volta fa.

Gli chiedo cosa lo stupisce di se stesso. Vorrei ascoltare le sue storie, impregnarmi della sua vita. Mi chiede di vivere con lui. Scherza? Scherza.

Riassumo qui adesso per evitare un proseguo complesso: gli chiedo ciò che non sa di se stesso. domando e confesso. lui dice di pensarmi spesso. finiamo a fare sesso in un intenso amplesso. Forse non c’è un nesso, ma sicuro c’è più d’un esso.

Rimango la notte con lui; stiamo insieme il pomeriggio, rimango la notte con lui e con.

Tre corpi rispecchiati nello sporco specchio di un bagno per uomini in un autogrill si struccano gli occhi e si lavano le mani da una notte euforica insolita elettronica, prima di mordere croissant alla crema e cioccolato e bere latte scaldato.

Le lacrime mi annebbiano la vista mentre rido correndo in macchina discorrendo con i tre ballerini nottambuli.

Parliamo di sogni.

Di Superio e cordoni ombelicali.

Predichiamo empatia. Pratichiamo empatia?

Accorriamo poi alle grida di Ortega, una vecchia astuta strega che stranamente a mani giunte prega e la sua cattiveria nega, mentre in mare annega.

Accorriamo alle urla di due litiganti che si chiedono perché i matrimoni finiscono poi smettono di chiederselo ma continuano a litigare poi vengono da me per dichiarare: “Ci separiamo”. E io devo decidere con chi andare ad abitare.

Scelgo la pastasciutta al ragù con tanto formaggio della mamma? L’ordine nei vestiti profumati di ammorbidente che trovo nei cassetti già stirati e impilati?

Scelgo il permissivismo del papà? Film comici allineati nella libreria della stanza da letto?

Oppure.

Scelgo un monolocale da arredare con un frigo giallo da riempire di mele farinose, di carote, di liquore all’anice da offrire a chi verrà in visita; tendine stropicciate e foto foto foto alle pareti sfumate spugnate; un’enorme lavagna da scrivere con gessetti colorati, una radio che suona bossa nova, romanzi classici e libri d’arte.

Gli respirano le guance, al mio nipotino, ancora impiastricciate di omogeneizzato alla mela-banana-pera. Tante efelidi quanti ricci, tanto appetito quanta impazienza; strilla e poppa avidamente, e dorme.

Un dì stringerò la mano, encantada, alla sua coinquilina, o solo vicina, o forse addirittura fidanzatina, che arriverà danzando in un tutù di raso e un paio di scarpette rosa.

Gli donerò tante fiabe e monete d’oro. Gli insegnerò a comunicare con la Lingua dei Segni, a dirmi grazie portando la mano al mento e poi verso di me, a chiamare la mamma con le dita chiuse a pugno appoggiate alla guancia.

Uno spirito buono cammina con il bastone dorato della sua dignità e indipendenza.

Non può vedere il colore del palloncino che gli porgo -bianco, ma può sentire al suo interno le vibrazioni della musica.

“Vuoi togliere le scarpe?”

“Sì”. Tocca le mie ma non ci sono, ho già solo calze.

Mi chiedo: cos’è la realtà, personale percezione? Se ognuno ha una percezione diversa dalle altre, le persone sordocieche forse ne hanno una ancora più diversa.

Sento la musica nel palloncino, quando F. me lo fa rotolare con una leggera pressione sulla pianta dei piedi. Lo fa rotolare su tutto il mio corpo sdraiato prono, prima mi tocca piano per sapere dove sono le spalle, dove finiscono i fianchi.

Poi senza palloncino, passa le sue mani sulla schiena, mi fa scivolare la stanchezza via dalle braccia, dalle gambe.

Infine contemporaneamente, ci alziamo, ci massaggiamo le braccia, comunichiamo col corpo attraverso movimenti che si sincronizzano.

F. sorride. Ride, a volte. Ha una bella risata, F.

La sento ancora.

La sento mentre guido il motorino e conto quanti moscerini uccido contro il parabrezza. Senso di colpa.

Immagino danze di moscerini, fili d’erba e coccinelle; lancio sassi piatti sulla superficie dell’acqua del fiume, che rimbalzano e disegnano cerchi cerchi cerchi.

Intingo un pennello nel fiume e dipingo una tela di azzurro, dipingo il mio mondo di azzurro acqua.

Saltella la più giovane rana, vestita d’una sottana, verso la nuova tana di una marmotta nana da tempo poco sana, portando in dono una collana e una caramella strana.

La insegue un giovane sportivo col fiato corto dopo kilometri di corsa, che sogna panini e bibite amare, ma continua a correre dopo kilometri e per kilometri fino alla sua mobile meta e poi fino alla sua televisione fino a. La sua sorellina ha bisogno del suo saluto, e di succhiarsi il pollice prima di chiudere gli occhi la sera.

Drogato di sport.

Drogata di pianti.

Dice la sua voce sottile dal suo corpo sottile: “Ho voglia di piangere… Andiamo a casa”. Cosa è casa?

La mamma non la sente o fa finta di.

C’è un fiore fissato all’occhiello della tua giacca verde, mi abbasso ad osservarlo ad ogni tuo intercalare.

Tu, concentrata a parlarmi di te, a toccarti i capelli con le dita umide della condensa sulla bottiglia di birra, a girarti verso chi ti cammina a fianco nel tentativo di vederti con i suoi occhi. Agiti le mani inanellate, hai ragione, certo, che hai sempre ragione, non ho la forza di contraddirti.

Vivi un perenne personale insinuante senso di non-approvazione destabilizzante..? Oppure il tuo cuore ha un battito regolare?

Quest’aria è satura delle emissioni dei tuoi vocalizzi egocentrici e questo tempo è denso solo delle tue attese senza compassione.

Non accetti spunti per un dialogo a due voci simmetrico e costruttivo; solo la tua visione dei fatti, solo la tua logica, solo i tuoi monologhi farciti d’esagerazione. Non cogli la mia assenza, i miei pensieri fluttuanti nell’altro mondo, i rimandi negativi nel mio sguardo.

Conversazione insostenibile, perché io immersa dentro ricordi di ricordi, perché tu così affettata e fintamente pulsante di emozioni non spontanee.

Mondi simbolici differenti, significati non condivisi, comunicazione impossibile. Distanza accentuata dall’impermeabilità ai segnali esterni che rimbalzano sulla protezione gelatinosa del tuo egocentrismo. C’è un fiore fissato all’occhiello della tua giacca verde, vorrei premertelo dentro la bocca, forte tentazione, per vederti sedere silente.

Non so perché.

Da un po’ di tempo non rido più.

Una donna in camice bianco mi fa accomodare su una sedia. Sento la sua mano fredda quando mi sfiora il gomito.

Sono un corpo fragile su un percorso fragile, un piede un canto un lago un santo, anche se nessuno ha mai usato la parola melancolia.

La donna mi sorride, mi chiede: “Qual è il Suo nome?”. Preferirei mi si rivolgesse con il tu, ma le dico solo: “Non gli ho mai detto di averlo amato, un piede un canto un lago un santo, finché si è suicidato”.

 



[1] Controverse sono le date di nascita e morte (dicembre 1925-aprile 1998..?!), ma certo Carlos Castaneda pubblica a suo nome “L’arte di sognare”.

[2] Ringrazio Alejandro Jodorowsky, personaggio ed effimero ammirevole, per avermi prestato la sua definizione di poesia.

[3] È Djavan, cantante brasileiro, di cui mi è stato regalato “Ao vivo”.