9  PASSI

 

I  PASSO – VAGITO

 

 

Una collisione e un boato gigantesco, l’aereo che si spacca a metà, prende fuoco e inizia a precipitare…

Faccio un salto tale che mi ritrovo in piedi con gli occhi spalancati.

Devo avere anche urlato poiché le persone sedute a fianco mi osservano con uno strano stupore bovino.

Abbozzo loro un sorriso auto-ironico e mi rimetto a sedere.

Nessuna collisione, stavo sognando. Il boato che ho avvertito, altro non era che il rumore sordo del carrello che impattava con la pista: siamo atterrati.

Guardo fuori dal finestrino e, mentre l’aereo decelera sull’asfalto caldo, la serie di grassi pensieri oleosi, che mi avevano costretto al sonno, mi si ricolloca sprezzante al centro della fronte. In un attimo mi sento di nuovo stanco e senza forze.

“Non sono ancora in viaggio” – penso.

Questo aeroporto russo è troppo… russo.

E’ la consapevole caricatura di se stesso, a partire dall’interminabile trafila per il controllo dei passaporti. Restiamo in fila per venti minuti prima che qualcuno dei doganieri si presenti agli sportelli e, tutto ciò, sembra fatto apposta, come a dire “benvenuti in Russia”, come per farti capire dove sei. Questo “benvenuto” lo si legge negli occhi della gente, qui: una sorta di severità grottesca, della quale si potrebbe anche ridere se, in fondo, osservando meglio, non vi si leggesse anche dell’altro.

Questi sguardi ti raccontano la storia di un popolo, sono carichi di sconfitta e fatalismo e di una rassegnata fierezza. Sono gli sguardi di un nobile decaduto.

Un cestino dell’immondizia prende fuoco, forse per un mozzicone di sigaretta.

In poco tempo la hall è invasa dal fumo.

Passano i minuti ma non interiene nessuno.

Le persone iniziano a guardarsi l’un l’altra , stupite e un po’ preoccupate.

A pochi metri dal cestino, c’è una donna in uniforme che, all’interno di una piccola cabina, legge, noncurante, una rivista.

Il fumo la investe in pieno ma lei non muove un muscolo.

Lascio la fila e mi dirigo verso di lei per farle presente il problema anche se dubito che non se ne sia accorta.

E’ anche un pretesto per mettere alla prova il mio catastrofico inglese.

Schiussmii, madam…” – le dico, indicando la pattumiera in fiamme.

Lei alza la testa. Mi squadra e, per un attimo, mi viene il dubbio di essere invisibile perché il suo sguardo mi passa attraverso senza toccarmi e subito si riabbassa sulla rivista che stava leggendo.

Mi guardo intorno un po’ spaesato. Ci riprovo: – “schiussmii…”. Lei diventa un vulcano in eruzione (il fumo attorno a noi l’aiuta nello scopo) e mi investe con delle frasi incomprensibili, secche e veloci.

Senza dire nulla, mi volto e torno al mio posto, mandandola mentalmente a cagare.

Sono stanco. Desidero solamente uscire da questo posto.

Il taxi è di quelli all’inglese, dalla linea retrò, alto e bombato. Mi adagio sul sedile di pelle rossa, mentre le prime gocce di pioggia di un improvviso temporale estivo solcano i finestrini.

In lontananza la città sembra un’isola grigia sospesa nel vuoto e la strada è un fiume sinuoso e lento che scorre al di sotto di noi. Il finestrino è un quadro a tinte grigie con pennellate cariche e decise.

E qui, ora, la mia vita si sfilaccia e si dissolve. Questa poggia che scende morbida e ricorda meriggi infantili, allunga il campo visivo, scioglie il grasso dagli occhi, dal cervello e lava via tutto, penitenza e purificazione; l’esistenza di un attimo prima.

Qualcosa accade. Qualcosa di conosciuto e inaspettato: mi ritrovo a respirare (mio Dio, da quanto non lo facevo?!)

E quest’aria che percorre i polmoni e scuote le vene è un vagito.

Ora sono in viaggio.

Un viaggio non si decide mai. Non puoi sapere quando inizierà. E’ lui che detta i tempi e mi lascia nudo, nel mezzo di una strada, con in dote nient’altro che un’arrendevole libertà e l’aria che respiro, in un pianto primordiale. Ogni volta il viaggio mi prende e mi avvolge, mi salva e mi distrugge.

Tutto inizia qui, sul sedile in pelle rossa di un taxi all’inglese, con una testa di ragazza appoggiata al mio petto, e una sconosciuta città che, come la strega delle fiabe, ci attende per divorarci.

Mi volto indietro per un attimo. Getto al vento le mie molliche di pane e chiudo gli occhi.

 

II  PASSO – TRANSIBERIANA

 

Il rumore del treno sulle rotaie. Un rumore costante, ossessivo che, giorno dopo giorno, diventa più discreto, quasi assente; colonna sonora di un improbabile habitat.

Poi, tutto è vetro, legno  acciaio che divorano la realtà in linea retta: ne abbiamo appena coscienza.

Il nostro fuori, il nostro oltre è una visione laterale dell’esistenza.

La realtà, col suo ritmo imposto, dispotico, è un lungo tubo dalle luci artificiali che ci dona il mondo da ermetici quadri impressionisti, fiumi cromatici nei quali un’ingannevole fissità è possibile solo per una maggiore distanza prospettica.

“Betulle di merda” – penso, staccando la fronte dal finestrino chiuso ermeticamente. Ragioni di sicurezza.

Dicono sia un treno pericoloso, che a volte viene assaltato da bande di predoni, come nel far west.

Per quattro giorni il paesaggio è rimasto pressoché invariato: immense distese verdeggianti costellate da questi alberi dalla corteccia bianca. Siamo solo a metà tragitto. Comincia a prendermi una leggera ansia.

Ho bisogno di mantenere la mente occupata su una qualsiasi realtà, ma tutto comincia ad apparirmi posticcio e l’aria condizionata non aiuta di certo.

La sensazione di fastidio viene alimentata anche dal fatto di non riuscire a trovare una sistemazione comoda.

Non ci sono scompartimenti con posti a sedere, solo cuccette. Rimanere sdraiati tutto il tempo è impossibile: per ogni scompartimento ci sono due letti a castello e noi abbiamo quelli in alto dai quali non si riesce nemmeno a guardare dal finestrino. Inoltre le cuccette di sotto sono occupate da due anziani cinesi che dormono tutto il giorno e cucinano piatti precotti negli orari più improponibili, l’odore di aglio e cipolle che sale ai nostri letti è insopportabile, soprattutto alle sei del mattino, orario al quale sembra affidata la loro dieta.

Così la maggior parte del tempo la passiamo al vagone ristorante a bere birra annacquata, a leggere un libro o a conversare con qualche viaggiatore solitario.

Oppure si rimane qui, nella zona di congiunzione di due vagoni, dove filtra un po’ d’aria esterna e si può fumare una sigaretta. Senza dubbio il mio posto preferito.

Il treno di notte ti culla dolcemente e dormire è facile ma io mi sveglio spesso.

Nell’oscurità mi guardo attorno. Il rollio del treno mi porta la dimensione del mio presente, tutti i sensi sono amplificati, la mente è un motore che romba e, in poco tempo, mi ritrovo ad inglobare tutto: odori, suoni, sensazioni; le ombre non sono mai state così intense.

Ci sono, eccomi, sono io, io, io, sono la mia vita su un treno, sono io stesso su questo treno furioso e veloce, divorerò tutto, non ho più ostacoli in questa notte adamantina e fruttata…

Un brivido mi percorre la schiena. Afferro quaderno e penna ed esco nel corridoio. Impossibile dormire ora. Un peccato mortale. Mi siedo per terra, vicino alla porta d’uscita e i pensieri sono un fiume, le parole si tuffano giù per il pendio del mio cervello e inondano un foglio dopo l’altro e penso che la mia mano è troppo lenta, inadatta a seguire i miei pensieri che sono inarrestabili, non è solo la mia mente a scrivere ma tutto il corpo: sono i piedi , le ossa, il sangue, lo stomaco che ribollono e hanno il sopravvento su qualsiasi obiezione razionale.

La notte è bella e tutta mia.

I corridoi sono deserti e silenziosi. Mi alzo e comincio a percorrerli, voglio arrivare fino alla locomotiva.

Ad un certo punto, una folata di vento mi investe il viso: un finestrino aperto! Un’icona mistica!

E’ abbassato di poco, riesco appena a sporgere gli occhi e il naso. Il treno sfiora un palo e faccio un balzo indietro.  Rimetto la faccia vicino all’apertura, schermando la luce del corridoio con le mani.

L’aria è profumata e fresca. La luna rischiara tutto e mi accorgo che il paesaggio è decisamente cambiato.

Chissà dove ci troviamo. Dovremmo essere ormai nella Russia orientale, poiché stasera il sole è tramontato un paio d’ore prima rispetto a quando siamo partiti.

Mi rendo conto di trovarmi ad attraversare luoghi che per me sono sempre stati solo aree geografiche su una cartina. Quando penso alla Russia, mi viene in mente Mosca o San Pietroburgo, ma ad est cosa c’è? Non ero neanche tanto sicuro che ci fossero città e paesi, nel mio inconscio era una sorta di zona morta, il confine del mondo, la sua periferia. Non me n’ero mai fatto un’idea, ma forse è per questo che mi sono buttato in questo viaggio: non ne ho un’idea. Intendo quell’immagine mentale dei luoghi che la fantasia crea prima di vederli. Immagine, tra l’altro, errata novantanove volte su cento.

Qui tutto è scoperta ma nulla è aspettativa, tutto è un gigantesco punto interrogativo. E me lo tengo ben stretto.

Stiamo costeggiando dei monti.

Mi piacerebbe scendere e fare un giro in mezzo a quel bosco lassù in cima, ululando in faccia a questa luna gigante, ma questo treno ferma solo poche volte al giorno e per una mezz’ora al massimo, giusto il tempo di scendere ad acquistare qualcosa.

Lungo il tragitto capita di fermarsi alle stazioni di piccoli villaggi, ancora interamente costruiti in legno. Sembra di essere tornati indietro di almeno un secolo. Compro viveri per il viaggio da donne vestite con abiti tradizionali: pesce affumicato, pane e uova.

Guardando questa gente mi torna alla mente il titolo del film “Lontano da Dio, lontano dagli uomini” e mi chiedo come facciano queste persone a vivere così, in un Paese che è stato tra le grandi potenze mondiali e che sembra averli dimenticati.

Mentre sono assorto in questi pensieri, alzo la testa e vedo, attraverso il finestrino, un gruppo di bambini al di là delle rotaie. Sono girati di spalle e, in fila tra l’erba alta con i calzoni abbassati, mi mostrano il culo.

 

III  PASSO – CAMERA D’ALBERGO

 

 

Oggi è uno di quei giorni in cui la vita è un film.

Uno di quei giorni in cui potresti camminare per la strada in ciabatte, sgranocchiando pop corn. Hai presente?

Le strade, i palazzi, i viali alberati sono un’immensa scenografia, curata nei particolari. Le persone sono comparse e attori preparati, conoscono bene la parte e con loro è sempre “buona la prima”.

Tu stai seduto comodo sulla poltrona del tuo cervello e apri bene le palpebre, su il sipario, si comincia, aaaaaazione!

Il copione cambia di continuo ma sai di conoscerlo bene e poi oggi si recita a soggetto. L’improvvisazione è fondamentale, qualche trucco di repertorio e il successo è garantito.

La trama, poi, è eccezionale, sempre sorprendente se uno ha un minimo di voglia e buone gambe.

Non so come nascano queste particolari giornate.

Qualcuno pensa che dipenda dalla congiunzione del proprio Essere con il Tutto universale, altri pensano che sia questione di neurotrasmettitori e sinapsi elettrochimiche, altri ancora che basti defecare bene e in modo regolare. Non so e sinceramente poco mi interessa.

Quello che so oggi è che di questo film voglio farne parte. Fare parte di questa Pechino, coi suoi giardini e i suoi templi curati da mani candide e affusolate che accarezzano gusti discreti e silenziosi; i mercati sporchi e chiassosi nel turbinare di persone in costante movimento, un fiume incessante ed energico, occhi che ti scrutano con timorosa curiosità; i fumi dei ristoranti con cucine all’aperto: pentoloni lasciati a bollire sopra latte ripiene di carbone.

E poi botteghe e strade di fango dietro ad immensi grattacieli, la massa confusa e illogica dei cavi elettrici che corrono ovunque, le luci basse dei lampioni la notte, la moltitudine di parrucchieri aperti a qualsiasi ora, la grande città proibita offesa e umiliata con la gigantografia di Mao che le pesa addosso…

Oggi è l’ultimo giorno qui, poi si cambia set.

Si gira la scena finale. La location è una camera d’albergo.

Questo corridoio assomiglia a quello del film “Shining” solo che questo è particolare: è curvo.

Siamo all’interno di uno stadio di calcio e l’albergo segue la curvatura degli spalti.

Arriviamo in camera che ormai è buio. Tutte le immagini, i suoni, gli odori  del giorno li conserviamo ben sprofondati nei muscoli delle gambe, ormai allo stremo.

La finestra è uno schermo gigante spalancato sulla città.

Avvicino i due letti e li posiziono al centro della stanza come poltrone riservate per lo spettacolo della notte. Questo film è un cortometraggio delicato e prezioso.

I rumori di fondo della città come colonna sonora che ci corrono sulla pelle, al sicuro nel nostro cinema privato, con la vita, là fuori, che danza discreta e complice e noi a renderle omaggio nella penombra. Il resto è una lunga dissolvenza in nero. Il resto sa di the alla menta e chiaroscuri, di lenzuola e moquette, di pelle e muri ingialliti, del sapore di sesso sulla lingua e molle arrugginite, di valigie disfatte e brezza estiva, di rullini da riavvolgere e di un domani lontano.

 

IV  PASSO – COME SACCHI D’IMMONDIZIA

 

Brividi di febbre mi scuotono e mi stringo nelle spalle.

Il torpore ha reso i miei passi ovattati e meccanici, mentre i pensieri sono tizzoni ustionanti che rendono la respirazione ancora più difficoltosa.

Libero la testa dal cappuccio sintetico del k-way, esponendo il viso alla pioggia e appoggio i gomiti al parapetto di un ponticello di pietra.

E’ notte nel piccolo villaggio. Il mare scava canali tra le basse case di legno e argilla. Le strade sono un dedalo di viuzze irregolari e strette, con una pavimentazione di grosse pietre lisce. Questo paesino ha l’appellativo di Venezia d’Oriente, anche qui le case poggiano su palafitte di legno immerse nell’acqua. Il paragone è palesemente esagerato, come quando ho sentito un olandese orgoglioso chiamare Amsterdam la “Venezia del Nord” e io ho ribattuto: “Sì, però Venezia non è l’Amsterdam del Sud!”.

Il mio pensiero si perde in queste considerazioni, mentre osservo l’acqua che scorre lenta sotto di me, cercando di riprendere fiato.

Per i viottoli scarsamente illuminati non c’è anima viva. Gli abitanti di qui, o sono venditori di cianfrusaglie per i turisti che di giorno visitano il paese, o sono pescatori, che dormono in grossi barconi, ormeggiati sul molo.

L’influenza mi perseguita dal mio arrivo a Shangai, dopo due notti passate a dormire sul ponte di un battello, che percorre lo Yang Zi River, il terzo fiume più lungo al mondo, che approda nella metropoli.

Lo stesso giorno, con le magliette e i pantaloni di tela fradici di pioggia siamo rimasti per ore all’interno di un ufficio di polizia per il rinnovo dei visti, nel quale una feroce aria condizionata mi ha dato il colpo di grazia.

Il mio vagare, questa notte, nelle alchimie della febbre, si trasforma in un sogno già sognato, un viaggio onirico e sensuale.

Dobbiamo cercare una sistemazione per la notte e, dato che i nostri passaporti sono ancora al distretto di polizia di Shangai per il rinnovo, non possiamo cercarci un albergo.

In teoria, non avremmo potuto nemmeno lasciare la città fino al rilascio dei nuovi visti. Torneremo quando saranno pronti, abbiamo pensato. Così ora siamo ufficialmente due clandestini in territorio cinese.

Ma come fai a stare fermo, a non andare, quando la vita ti chiama tirandoti per la manica?

Arriviamo davanti all’immenso portone di un tempio buddista, che si affaccia sul molo. Il portone, in alto, ha una piccola grondaia. Mi siedo per terra, con la schiena contro la colonna che sostiene i cardini ed Elena che si siede tra le mie gambe, appoggiandosi sul mio petto.

Passeremo qui la notte.

Tiriamo i cappucci dei k-way sulla testa e sul viso perché, ogni tanto, delle gocce di pioggia ci raggiungono. Così accoccolato avverto meno freddo e, a causa della febbre, comincio a sentirmi particolarmente rilassato. Un’ilarità da ubriaco si impossessa di me. Comincio a esternare, una dopo l’altra, le stupidaggini che si affollano nella mia mente, tentando inutilmente di trattenere gli scoppi di risa. A pochi metri da noi sono ormeggiate delle barche.

Ad un tratto udiamo dei rumori: dal sottocoperta di un’imbarcazione, attraverso uno sportello di legno, sbuca un uomo mezzo svestito. Dobbiamo averlo svegliato.

Questi si guarda attorno, ma sembra non vederci.

Il fatto è che, nella penombra, chiusi nella tela scura dei k-way, appoggiati, come siamo, al portone, dobbiamo sembrare due sacchi d’immondizia.

Sottovoce, lo faccio notare ad Elena e scoppiamo in una risata soffocata a stento.

L’uomo deve aver udito qualcosa e, guardingo, viene nella nostra direzione.

Rimaniamo immobili, ormai è a qualche metro da noi e si guarda attorno con aria perplessa.

Quando arriva ad un passo, alzo la testa e gli urlo: “Ciao!”.

Fa un balzo indietro e scappa via di corsa, mentre noi riempiamo la notte di risa incontrollabili.

 

V  PASSO – SATURDAY NIGHT BICICYCLE

 

Le nuvole morbide e rosate dell’alba stanno progressivamente abbandonando la vallata, confondendosi con l’oscurità serale. Una fresca brezza agita i canneti e l’erba alta dei campi.

Il temporale pomeridiano ha reso la strada viscida, sprigionando un forte odore di terra ed asfalto.

Nell’oscurità, le ruote delle biciclette corrono leggere e veloci sull’impercettibile discesa.

La pioggia pomeridiana ha rinfrescato l’aria.

Pedaliamo verso il ritorno. Stavo per scrivere “verso casa”. Ma “Casa”, in viaggio, si trova sempre un passo più avanti. Ad ogni metro sento crescere in me un’improvvisa energia.

Pedalo e pedalo, come se non ci fosse nient’altro di più grande, di più intenso, pedalo come se non avessi mai fatto altro, e mi ritrovo a chiedermi perché mi senta così bene. Poi capisco: è questione di ritmo. Mi accorgo che il ritmo dei miei piedi è in sincrono coi miei battiti cardiaci.

E’ la mia vita che impone il proprio ritmo al mondo.

Tutto, tutto stasera è musica, la mia, persino il ciclico cigolio della catena arrugginita, o il suono della bottiglia d’acqua che sbatte contro il manubrio.

I monti, laggiù in fondo, sono ripide risalite melodiche di partiture per violino.

Tutta l’esistenza è questa notte di pece e una strada dritta, infinita, e non ci sono parole per descrivere la bellezza di un destino che scivola via senza più ostacoli, che sa benissimo dove andare.

All’improvviso mi rendo conto di dove mi trovo: perso nell’oscurità di una notte d’agosto in una vallata dello Yunnan, in sella ad una scassata bici cinese, e mi sembra la cosa più naturale del mondo.

Stacco le mani dal manubrio, respirando l’odore forte della terra umida e, mentre iniziano a intravedersi le luci della città, mi prende un pensiero. Un pensiero stupido, in realtà. Mi rendo conto che è sabato sera e sorrido all’idea di cosa rappresenti per milioni di persone questa serata, all’idea della sacralità morbosa che le si conferisce.

E’ sabato sera, io pedalo sotto le stelle e non ho bisogno di nient’altro.

 

VI  PASSO – PICCOLO COMPAGNO DI VIAGGIO

 

Dormi ancora sull’alto di monti silenziosi e hai per coperta un manto di stelle tibetane.

In questo periodo dell’anno, il tuo giaciglio sarà completamente innevato.

Questo passo è dedicato a te, piccolo compagno di viaggio, piccolo cucciolo sfortunato.

Te ne sei andato presto, una notte di settembre, tra le braccia della tua padrona, ormai sfinito da una misteriosa infezione.

Hai percorso più chilometri tu, nella tua breve esistenza, di quanti ne percorrerà mai un cane in tutta la vita.

Lo so, è una magra consolazione.

Sempre meglio della vita che ti si prospettava prima che ti acquistassimo da un venditore in un villaggio dello Yunnan, a tremila metri d’altezza, che ti teneva tutto il giorno rinchiuso in uno scatolone con gli altri tuoi fratelli.

Ti ricordi? Ti ha mollato nelle mie mani tenendoti penzoloni per una zampina, gran bastardo.

Ripenso con dolcezza e con un sorriso ad alcuni momenti.

Una volta, di notte, mentre dormivamo nelle cuccette in alto di un vagone letto, sporgendoti, sei volato per terra, svegliando mezzo treno. Per la paura ti sei infilato sotto un letto e non volevi più uscire.

Ricordo il tuo musetto che spuntava dal cestino della bici, quella sera in cui raggiungemmo il deserto, mentre pedalavamo giù per il pendio delle colline coltivate a vigneto.

Ripenso a quanto odiavi il guinzaglio e a come ti sedevi in mezzo alla strada, lasciandoti trascinare in segno di protesta.

Ricordo momenti di paure.

Quando un veterinario, invece di una medicina per i vermi, ci diede uno shampoo antiparassitario e abbiamo dovuto farti una lavanda gastrica d’urgenza.

E poi dopo, quando la malattia ha cominciato a manifestarsi, proprio durante il viaggio verso Kashgar. Tu non mangiavi più niente e deperivi a vista d’occhio.

La notte in cuoi arrivammo e ho pensato “Non ce la fa”, nella quale tirammo giù dal letto un veterinario perché ti visitasse e ti facesse una flebo, e poi passammo la nottata insieme a lui e a suo fratello, che ci parlò del loro antico popolo Yughur, i nomadi del deserto.

Mi torni alla mente, mentre ti sforzi di giocare in mezzo all’erba, traballante sulle tue ormai esauste zampine. Penso a me, che masticavo piccoli pezzetti di carne per renderli più digeribili, e poi ti imboccavo, cercando nei tuoi occhi un qualche segno di guarigione.

Ti dedico questo passo, poiché di questo viaggio, oggi, io non conservo nulla che non sia ricordo e memoria.

Ho perso tutte le testimonianze tangibili di quei giorni.

Ho smarrito persino il mio quaderno di appunti, all’aeroporto, prima del volo di ritorno.

Tutto come un sogno nel dormiveglia, è condannato ad essere presente solo nel ricordo.

Sembra che tutta quella vita abbia deciso di fuggire via, come a dire: “Per te esistevo solo allora, non ha senso che u mi possa ritrovare in un’altra realtà che non sia quel tuo ieri”.

Così anche tu alla fine sei partito e ora, nel silenzio della mia camera, a migliaia di chilometri dal mio allora, brucio incenso per te, alla maniera tibetana.

Buona notte, piccolo compagno di viaggio.

 

VII  PASSO – LA COLLINA DELLA PAGODA

 

Ti ricordi la collina della Pagoda sotto la pioggia leggera le urla dei maiali portati al macello?

La sacralità disturbata del silenzio, mentre fili d’erba ti accarezzavano i piedi e la montagna sonnecchiava noncurante oltre le nebbie di un lago immobile.

Fumi d’incenso salivano lenti dalle campagne e dai cortili a propiziare il raccolto.

Davanti agli usci delle case, protetti da iracondi Dei della fortuna con volti di demoni, i bambini davano fuoco ai loro desideri: piccolo falò dei sogni che, nella penombra, portava al cielo preghiere e speranze.

Tutto era un gesto lento e sicuro tra le mura del villaggio, nel pomeriggio umido e sornione.

La vecchietta dalle mani di cartapesta trascinava il suo carretto strapieno di cianfrusaglie sulle salite lastricate di ciottoli, con la forza indolente dell’abitudine e avresti scommesso che ci fosse un trucco in quel vigore innaturale.

Noi, come guardiani impassibili di quella vita antica e molle, dall’alto della collina, troppo grandi per farne parte, troppo piccoli per non lasciarsi avvolgere, ascoltavamo rapiti le urla al di là delle siepi.

Crepitii di vite che si spaccavano, come ultimi, disperati tizzoni di brace e…

Mio Dio, come si può sopportare il dolore, quando ti colpisce dritto in faccia? Quando non ha più maschere né attenuanti? Quando non lo puoi vedere ma solo sentire… Sentire che preme sulla pelle, affonda nei nervi e poi corre su, una reazione chimica dopo l’altra, fino a ghermire il cervello che ribellandosi lo affonda nella gola e sul fondo dello stomaco?

E’ terribile non poter vedere il dolore, non poterlo inquadrare, donargli una qualsiasi distanza prospettica da te stesso, quando diventa il tuo stesso dolore e tu sai bene di cosa si tratta, perché è ciò che ti spacca dentro, da sempre e…

Un fiume in piena, denso e purpureo, irrompeva giù per il pendio, travolgendo il mondo fino a sommergerci. In quel momento, al di là di tutto ciò che riesci ad accettare, una voce, furiosa e grave, ci investiva.

“Non respingere! Non respingere nulla! Affondalo tu, il coltello, nelle carni del mondo, se vuoi capire perché è perfetto, se vuoi conoscere il senso di un attimo inevitabile! Devi avere il coraggio di essere il carnefice dell’esistenza! Capire che non esiste paradosso tra queste urla e le risate dei bambini nel villaggio! Trova il coraggio per guardare il dolore senza distogliere lo sguardo, senza muovere un muscolo, senza dire una parola, se vuoi riuscire a vedere tutto il resto! Vedere veramente! Altrimenti quello che rimane è una serie infinita di alibi e sotterfugi! Non perdere tempo, perché io ti ruberò tutto… tutto…”

 

VIII  PASSO – UN PULLMAN NEL DESERTO

 

Che cosa vuoi sapere tu di un viaggio?

Tu che sei andato nei miei stessi luoghi ma non hai mai visto niente.

Tu che sorseggi un cocktail in business class e sembri non essere mai uscito da lì.

Tu che guardi il mondo come una trasmissione televisiva e paghi per non avere imprevisti.

Tu che non tocchi nulla, che filtri tutto, che non muori in niente.

Tu che compri cartoline da mandare ai tuoi colleghi.

Tu che consideri il mondo un centro commerciale.

Non parlarmi di viaggi, per favore.

Il mio viaggio è un pullman nel deserto.

E’ saldare il mio sedile che si è spaccato.

E’ versare acqua nel radiatore fumante.

E’ il sapore dei fichi rubati per strada.

E’ assistere un cucciolo moribondo, mentre gente intorno ride di me.

E’ asciugare la fronte della ragazza che mi dorme accanto.

Il mio viaggio è svegliarmi di notte con la sabbia in bocca.

 

IX  PASSO – COMMIATO

Questo è il passo del commiato.

Questo è un passo mai concluso, il piede che non si appoggia e si ferisce.

Questo passo sei tu, la mia debolezza latente dalla quale cerco di fuggire.

Sei tu, seduta sul letto di una camera d’albergo mentre il sole tramonta sulla città e il mercato giù in strada.

Sei il passo sempre presente che mi accompagna per le strade dei nostri strani viaggi, così uguale al mio confondersi con esso, tanto che a volte non ero certo che tu fossi ancora lì a camminare al mio fianco.

E poi sei ovunque io mi volti a guardare…

Per questo è difficile accettare, capire che è inutile parlare al tuo ricordo perché “la tua traccia, la tua memoria sono solo una cosa mia, tu non ci sei in niente”.

Per questo la dimensione del tuo ricordo, in realtà, non è altro che la dimensione della mia solitudine.

Ci sono solo io qui, a sentirmi unico testimone di me stesso.

Ma nonostante tutto eccomi ancora a parlare con te, così da non capire quale sia la verità.

Forse non ho molta dimestichezza con la verità.

Mi sembra sempre un qualcosa di sfuggevole, qualcosa che non si lascia afferrare e più ne parlo, più mi sembra incompleta e, in un certo modo, falsa.

Per questo preferisco la letteratura e l’arte in genere: rendono la verità una menzogna plausibile.

Io non so cosa sia successo, bimba mia, o forse lo so ma non voglio ammetterlo.

Mi piace pensare che tutto si possa riassumere in una frase, che un Berbero ti sussurrò in un orecchio, in un’oasi nel deserto Sahariano, mentre tu scaldavi dell’hashish e il sole calava dietro le dune:

 

tu fumi e lui sogna”…