Una  Domenica di Viaggio

 

 

Il mio cervello si sveglia adagio, riconosce una luce elettrica oltre la porta della camera, distingue passi in corridoio poi tintinnii di cucchiaini contro la tazza del tè provenire dalla cucina. Rumori di mattina. Rumori di famiglia. Giochi di identificazione e allontanamento che donano la quasi-sicurezza che qualcuno oltre a me animi questa casa.

Vedo le montagne dei fianchi del  mio Fratellonzo ergersi dal piano del materasso tirandosi dietro la coperta a rigone grigio-verdi.

La porta si apre piano e un piede di Papà entra in cameretta, dolcemente…come se avesse paura di svegliarci…come se non fosse entrato apposta per svegliarci…Chiudo gli occhi e faccio finta di dormire. L’ombra del Papà si avvicina, mi appoggia una mano sulla spalla sopra al lenzuolo al piumone alla coperta di lana, sottovoce vicino all’orecchio dice: “Cosa facciamo, andiamo in montagna?”.

In risposta riceve solo struscii di corpi contro le lenzuola e leggeri miagolii di risveglio e di sfregamenti di palpebre, miei e del Fra. Non cede al suo attacco: “C’è il tè pronto per voi ,eh, in cucina.”. Stavolta un “sì” quasi come un sibilo lo rincorre mentre volta le spalle, ma non si capisce se è rivolto al tè o alla montagna, se nasce dalle corde vocali mie o del Fra o dalle mie narici che chiedono disperatamente di essere liberate per tornare a respirare.

Sorrido all’aria che odora di chiuso, gesto d’apertura al nuovo giorno per scegliere il più positivo tra gli umori possibili. Il Fra-voce-rauca mi dice “Dai, andiamo in montagna!”. Allora uno stato d’animo allegro e generoso si accasa in me.

Metto un cucchiaino di miele d’arancia cristallizzato e tengo un po’ tra le mani la tazza. Il rito della colazione può essere generatore di stizza profonda; certe mattine mi sorprendono insopportabilmente nervosa, non per il ritardo o per la maglietta stropicciata o per le nuvole, ma per il tè bollente che mi ustiona la lingua e che per tutto il dì non mi permette di gustare altri sapori, oppure perché è troppo forte troppo scuro troppo amaro dall’odore quasi cartaceo di filtro quasi disciolto nell’acqua. Invece oggi, io e questo tè alla pesca dolce e caldo siamo proprio in sintonia!

Nell’angolo di finestra libero tra la tenda e la cornice legnosa s’intravede un cielo azzurrino un po’ opaco ma sereno. Ciò giova anche al Fratellonzolo che seduto alla mia sinistra ingurgita il suo tè in due secondi.

 Dal salotto arrivano le eco dei preparativi di due coniugi in subbuglio che si pongono domande inutili e banali solo perchèuna gita domenicale in famiglia non corrisponde all’abitudine, ma forse quando si invecchia si diventa tremendamente pratici attenti ai dettagli e a contrastare ogni minimo imprevisto.

Prima che la Mutti chiuda la porta corro veloce in camera, quasi inciampo nelle mie scarpe abbandonate sul tappeto, a prendere il cd di John Lee Hooker, sfilo fuori sul pianerottolo e giù dalle scale fino in macchina.

Partenza.  

 Silenzio.

Anche il silenzio è comunicazione, niente è neutro. Ovunque c’è Energia, il vuoto non esiste. Il ginocchio del Fra sfiora il mio, testa buttata all’indietro sullo schienale, forse sta riandando con la mente ai sogni che ha lasciato sul cuscino prima di alzarsi, che forse rimandano a persone fatti impressioni di ieri sera. Si accende la voce di  John Lee Hooker, il rumore del motore non riesce a coprirla.

Mutti: “La tua amica Gaia? Non vi sentite più?”

Fra: “No… Le cose cambiano. Tutto cambia: Sembrava che andassimo d’accordo, invece è come se lei non riuscisse a trovare un equilibrio, è un continuo confronto-tensione-competizione col mondo e non sopporta che qualcuno possa essere superiore…”

Mutti: “Non è salutare accanirsi contro se stessi, non serve creare gerarchie, perché ci si scontra in continuazione con persone che si rivelano migliori e peggiori.”

Io: “ Dovremmo imparare a stupirci di queste diversità! A usarle in modo costruttivo, contro questa società che ci vuole massificare!”

Fra: “Gaia critica ma teme tutti, etichetta gli altri in quanto prodotti della società, quindi sottomessi e senza personalità, ma poi è la prima inconsapevolmente influenzata ed incoerente ed egocentrica.”

Io: “A volte invece chi sembra più modellato e forzato, vicino alle immagini proposte, è più equilibrato e creativo e dorme sonni e sogni tranquilli e pensa a se stesso nel suo piccolo, cerca di costruire progetti personali e raggiungerli pian pianino…”

Fra: “Gaia vuole crearsi questo personaggio romantico, pensatore intimista demofobico che non riesce a dormire per il continuo riflettere e rielaborare..”

Io: “..ma se non ha rapporti con gli altri può riflettere solo su se stessa, no?!”

Fra: “Infatti si lascia prendere da questa corsa alla notorietà e all’apparenza!”

Io: “..che te non condividi…”

Mutti: “Così non vi sentite più…”

Fra: “E’ andata così. Stop.”

Io: “Come quelle circostanze in cui la volontà si annulla, in cui sembra che  non sia tu a gestire la situazione ma è la situazione a guidare te.”

Fra: “Sì.”

Io: “Magari si può tentare ancora.”

Fra: “Tutto cambia:”

Mutti: “Però ogni tanto potrebbe cambiare in meglio…”

Un’insegna rossa attira la mia attenzione: “Azienda Vinicola Da Carmensita”.

Il piede del Papà preme costante sull’acceleratore, così riesco a scorgere solo uno spicchio di vigneto alle spalle della cantina.

Immagino due innamorati passeggiare mano per mano tra le file di viti e sorridersi e abbracciarsi.

Appartengono a un sogno remoto, un’azione incompiuta rimasta imprigionata tra le mie memorie e divenuta col tempo un ricordo nostalgico di un fatto non realizzato; mi vedo col mio vecchio Adorato rincorrerci per i colli, sento sulla lingua il gusto di viola del vino rosso bevuto per brindare a un dì di festa e ricorro con gli occhi i riflessi aranciati del liquido corposo e vellutato, ascolto la sua voce leggermi poesie di Dylan Thomas…Forse ora la sua voce è cambiata e ha assunto un timbro da uomo responsabile, magari ha perso la sua fluidità per guadagnare inflessioni affettate e affrettate. Ormai non  la riconoscerei più. L’evoluzione dei nostri piccoli mondi ha seguito due binari paralleli da cui possiamo guardarci senza possibilità di stabilire collegamenti. Mi piacerebbe sapere se è felice, se pensa al nostro passato comune, mi piacerebbe invitarlo nel mio girovagare primaverile in bicicletta per sdraiarci poi in mezzo al prato bagnato dal temporale della notte solo a osservare le nuvole che corrono e a leggere poesie di Dylan Thomas…

A volte il pensiero di lui mi martella il cervello, ma dovrei smettere di pensarci e focalizzarmi sul Qui ed Ora. Qual è il mio presente? Quali sono i miei picchi emozionali in questa stagione portatrice di luce e pigrizia, di voglia di partire e costruire e poltrire allo stesso tempo? Forse i due occhi azzurri di un ginnasta?! Due occhi che incrocio solo il martedì sera ma che tornano a farmi visita nei sogni pomeridiani, quando fisso la bocca parlante del professore simulando costante attenzione mentre la mia mente vaga per mondi fantasmagorici a forma di cuore; una dolce ossessione, ma nulla di serio, solo una scusa per scrivere e fantasticare, un amore fatuo che m’insegue e riposa ogni tanto sui miei ricci capelli cresciuti, la facile esca di una timida e ingenua sognatrice.

Sì, qualcuno mi descriverebbe in questo modo. Ma è possibile che in me coesistano in modo altrettanto sviluppato le componenti sospensiva e razionale? Le sento duellare, alternarsi colpi vincenti. Sono interessata-concentrata a tratti persa-distratta di fronte ai due occhi di ginnasta, per poi risorgere cinica l’indomani considerando la nostra reale distanza e l’energia necessaria a costruire una profonda sinergia tra due personalità in equilibrio, minate continuamente da stimoli-cambiamenti-tradimenti, conscia del fatto che il mio slancio di curiosità è abituato ad una imminente scadenza; accanto alla sensazione di vincere il sonno e la forza di gravità, non contemplo promesse di impegno-sforzo-compromesso. Questi altalenanti punti di vista dipendono forse da un meccanismo di volontà che non ho imparato a governare appieno. Magari è solo paura. Paura dell’ignoto. Dell’esporsi. Della perdita. Della totale condivisione.

 “La scia di quell’aereo sembra la scia di una cometa!” dice il Fra. “Noi siamo i Re Magi!”

Io: “Che doni portiamo?”

Fra: “Io Intelligenza e Sapienza:”

Io: “Anche Modestia?”

Fra: “Ihih…Ok, allora mi limito alla Simpatia! Te?”

Io: “La Serenità!”

Fra: “Il Papà la Pignoleria.”

Mutti: “Io l’Altruismo!”

Io: “Ma il Papà porta qualcosa di negativo, trasformiamo il suo dono in Puntualità, no?!”

Fra: “La Pignoleria è negativa in certe situazioni, ma positiva in altre!”

Poi la scia scompare dietro le montagne, dietro a pini che sembrano finti, equilibristi sul verde fianco della montagna rotto da una fascia d’ombra, le punte pennellate di giallo e arancione.

Il Papà infila la macchina tra due auto in un grande parcheggio cementato che mal s’accorda con il paesaggio che ci circonda, montagne che ci cadono in testa e corsi d’acqua che le fendono sottilmente, neve che pialla le alte pendici con colori primaverili che cercano un varco.

Io e il Fratellonzo apriamo le portiere posteriori e veniamo immobilizzati dall’aria fredda d’alta quota; mi avvolgo stretta la sciarpa al collo, le orecchie le copro con le mani, le mani le scaldo con i guanti. Vorrei essere una foca, nessun arto sottile e sporgente, solo un gomitolone di grasso e pelle per contrastare il gelo.

Quattro escursionisti poco esperti in fila indiana lentamente si affacciano dalla staccionata delimitante il parcheggio: acqua verde cristallina, riflessi mutevoli di luce saltano sulle onde del fiume sotto di noi. Il Papà indica un ristorante e parla verso la Mutti, ma la sua voce non mi giunge, il vento la spinge nel senso opposto. Il Fra si chiude in meditazione.

Chiudo gli occhi e annuso il vento. Il Fra mi spintona per buttarmi di sotto ma mi trattiene per le spalle, mi fa rimbalzare nell’aria e quasi urlare per lo spavento; vuol dire che non è così lontano da noi come credevo, in clausura nel mondo del Sé senza aperture alle percezioni sensoriali.

Camminiamo verso il ristorante, volti che si girano, sguardi incapaci di star fissi per assorbire tutto il panorama, passo lento, uno vicini all’altro; sento la mano della Mutti intromettersi tra il mio braccio e la tasca del cappotto allora infilo un piede tra le sue gambe per farle uno sgambetto e si mette a ridere tirandomi un’occhiata finta-offesa.

Il Papà apre la porta con aspettative crescenti, ma il ristorante mi colpisce per la sua scarsa personalità del suo ingresso da bar-tabacchi, della sua unica ampia sala illuminata da finestroni senza tende, della   sua cucina nascosta in fondo al corridoio. Un burattino oltre il bancone, fiero di essere infagottato nella sua pancera di grembiule, precede qualsiasi richiesta: “Mi dispiace, è tutto prenotato.”

Torniamo alla macchina in silenzio, questa vola un silenzio di tensione, la batteria dell’energia grippale è quasi scarica. Azzardo un “a me non piaceva tanto”, ma le mie parole non vengono colte come un invito al dialogo. Quattro automi risalgono in macchina, il motore si accende, ci muoviamo verso un’ignota destinazione senza prendere in considerazione l’ipotesi di tornare da qualche trattoria lasciata sulla strada.

L’indole bizzosa di Papà comincia ad esternarsi, a farsi rumorosa: sbuffi, nervosismo.ohccavolochiandavaapensarlo, gocce di sudore nascono dai pori della fronte, la cintura di sicurezza si slaccia e riallaccia in tentativi a vuoto di sfilarsi la giacca ingombrante, altri sbuffi. Non accetta i rischi di attuazione dei suoi piani originari. Dal suo fianco giungono accenni di battute spiritose credendo fruttuoso il potere della drammatizzazione: “Andiamo a casa a cucinare quattro piatti di pasta con aglio, olio, peperoncino?”.

Il clima resta pesante. Mutismo doloroso dal retro, dai nostri corpi semidistesi che non sopportano il Papà quando non sopporta le inclemenze del Caso. L?armonia è rotta. Ancora sbuffi, lamentele; inversione di marcia.

“Qui!”, intimo e suggestivo, già notato all’andata; dobbiamo imparare a riconoscere i Segni per seguirli, per evitare di rimandare, di cadere, di sbagliare o rimpiangere.

festeggiare fra di noi, ci bastiamo.”

Fra: “Anche perché sai cucinare meglio di un ristorante!”

Papà: “Beh, ma le cose possono cambiare. Tutto cambia.”

Io: “Cosa vuoi dire, che i piatti della mamma sono peggiorati?”

Sta aumentando il volume di una risatina corale, quando torna la cameriera: “Caffé? O dolce?”

Dopo un pranzetto gradito e gustato sarebbe un sacrilegio sorvolare sul dolce: “Che dolci offrite?”

Qualcuno sostiene che le prime parole di un elenco sono quelle che meglio si ricordano perché poi l’attenzione va disperdendosi, qualcun altro crede che siano le ultime a rimanere più impresse in memoria in quanto passa meno tempo da quando le si sente al momento in cui si esprime un giudizio; certo è che sia io sia il Fratellonzo non cogliamo le prelibatezze che la gentile cameriera inserisce a metà del suo elenco. “Scusi, cosa c’è dopo la torta di pere?”, “Ehm, cos’ha detto prima del profiterole?”

Il Papà, uomo da salato e da salume, sempre sazio di dolci, opta per una coppetta di gelato alla crema “senza panna,grazie”. Io emetto sospiri sognanti con salivazione triplicata dinanzi alla crema catalana cosparsa di caramello, la scavo piano col cucchiaino pregustandone densità e dolcezza e la appoggio delicata sulla lingua e le mie papille ne assorbono il gusto e la sciolgo contro il palato e chiudo gli occhi come chi canta trasportato solo dalle note come chi prega in assoluta sacralità.

Piatti che volano di dolci spezzati, prestati, condivisi, torta Sacher che chiede altra torta, briciole di cioccolato bianco che affogano nel fondo del gelato sciolto, degustazioni e “grazie” e posate Dice il portone della trattoria: Veloce viaggia il Viandante, Verso le verdi Valli, Voltandosi vede una Vipera volante al Vibrare di un Violino e il Vorticoso Vento vagare, Verso le verdi Valli. Un sinuoso movimento, un flusso ondeggiante compenetrano nelle mie orecchie alla sola lettura, equilibrio fragile.

Il fuoco scoppietta nel camino all’entrata e la cameriera si assottiglia per attraversare un trio ipnotizzato dalle fiamme e raggiungerci. Ci stringe la mano e poi si scosta di lato per estenderci la visuale sul salone; orgogliosa e accogliente, sorride ogni metà frase. Guida il Papà con un leggero contatto della mano sul gomito e sfiora il Fra sulla bassa schiena; invade le nostre zone personali con gentilezza, forse lo sa che la sorpresa di un lieve contatto induce il cliente ad una prima ottima impressione.

Tavolini rotondi sono apparecchiati in una piccola veranda con una luce soffusa, la cameriera accende la candela al centro mentre noi ci accomodiamo in cerchio. Cerchio: la figura geometrica perfetta, senza spigoli, morbida, infiniti punti che si guardano negli occhi equidistanti dal fuoco centrale, simbolo di eguaglianza condivisione circolarità; un girotondo, un hula-hoop, una pancia di mamma in attesa, una bolla di sapone, una damigiana decorata come quella alle mie spalle che ospita grandi fiori.

La lista del menù e l’appetito fungono da enzimi della conversazione.

Piatti fumanti, gialli e verdini della crema di piselli che fa da coperta alla pasta della crespelle che nasconde il formaggio delicato, mentre quello di Papà è un autunnale giallo-polenta e marrone-carne tenera che affoga nel sugo ai funghi; vino versato dalla brocca, scuro e fermo, in tutti i bicchierini tranne “poco, poco” in quello della Mutti. Soffio per raffreddare il mio cibo invitante e il bicchiere si appanna, sorrido ma nessuno mi nota. Il Papà è già impegnato come un selvaggio a ingoiare forchettate di polenta, a togliere microossicini che si confondono nel sugo, a fare la scarpetta, il Fra mastica un pezzetto di mollica per non ustionarsi la lingua con la crema calda, la Mutti punge impaziente le crespelle con i denti della posata.

Mutti: “Ma quanto tempo è passato dall’ultima volta che siamo stati in un ristorante?”. Rispondo “boh…”, che noi non siamo come le famiglie che in ogni occasione escono a pranzo. Mutti: “Forse perché stiamo bene a casa e sappiamo che lucidano piattini per raccogliere fino all’ultima scaglia fino all’ultima goccia. Inebriata di dolciura. Non ne sarò mai indipendente.

Faccio strisciare la sedia sul pavimento e vado verso il bagno, cammino eccessivamente irrigidita per vincere in apparenza l’effetto del vino che mi fa un po’ galleggiare e le scale mi scorrono sotto i piedi, la pancia è gonfia di pipì e di crema catalana. Vedo una bimba biondissima dondolare ma questo no, non è colpa dell’alcol, sta cavalcando una seggiola a tre gambe che ad un tratto s’imbufalisce e la disarciona. Pausa; ed ecco un tipico pianto soffocato in un’apnea silenziosa interminabile che si libera urlante acuto sofferente per poi prendere ritmi singhiozzanti. Io, invece di piangere compassionevole con lei, mi metto a ridere! Pensando che “risa, lacrime, sorrisi sono universali e il loro carattere innato si manifesta nei sordo-muti-ciechi dalla nascita, che sorridono e piangono senza aver imparato da nessuno.”, come scrive Edgar Morin.

Le lame del vento mi tagliano la faccia, il camino de il Viandante è già lontano, accelero il passo verso la macchina ma devo comunque aspettare la chiave magica del Papà.

Mi stringo nel cappotto ancora un pochino, infreddolita, ma l’aria della macchina si scalda subito dei nostri fiati e del nostro ridere anche del ridere, dialoghi intessuti in cerca dello scontro ma su un piano amichevole, le guance rosse dal calore di un buon pranzo in compagnia, voglia di scattarsi foto, saluti ai monti attraverso il finestrino. Respiri spezzati da risolini di sfottò indirizzati alla Mutti, perché inventa risposte poco plausibili pur di non lasciare un interrogativo irrisolto, perché per lei il reale si annulla, come per i bambini, il pensiero e l’immaginazione sono la Verità.

A coronamento di questo clima si può sentenziare, come sostiene Virginia Wolf, che “uno non può pensare bene, amare bene se non ha mangiato bene”. Il Fra apprezza la citazione, un’ipotetica didascalia alla foto di famiglia di questa domenica tra i monti.

Poi silenzio. Il suo ginocchio sfiora il mio; già proiettato verso casa sveglia il suo cellulare con un bip di accensione. Sguardi distesi e teste che ondeggiano perché John Lee Hooker è tornato a cantare.

Abbocco. Ritorno. Fine di un viaggio nel più grande Viaggio costante fluente inarrestabile denso di costellazioni di viaggi, improvvisati o programmati, viaggi rimandati, viaggi che hanno in sé la tristezza del rientro ancor prima di partire, viaggi non goduti, viaggi attesi, viaggi mentali, viaggi quotidiani nelle piccole cose seguendo i fili che legano persone e luoghi e desideri…

Viaggio, viaaggiooo, vià  ggiò, Vi Aggio, e me lo ripeto smielando ogni lettera ascoltando il contatto dei denti sul labbro inferiore e della lingua sul palato e delle infinite possibili aperture vocaliche, finché perde il suo senso, finché mi accorgo che mentre penso al Viaggio sto viaggiando…