LA PICCOLA GOCCIA DI PIOGGIA.

 

Quando si svegliò e aprì gli occhi aveva da poco smesso di piovere, e la luce del giorno non aveva ancora conquistato tutto il cielo. Si stropicciò gli occhi con le mani chiuse a pugno, e dopo qualche secondo che le servì per riprendere coscienza del proprio corpo aprì la portiera e scese dall’auto. L’aria fresca del mattino e il profumo del mare l’aiutarono a scacciare i residui di sonnolenza che la nottata trascorsa in auto le aveva lasciato. Decise di fare una passeggiata sulla spiaggia. Si levò le bianche scarpe di tela, e il suo corpo fu scosso da un leggero brivido quando i suoi piedi nudi toccarono la superficie della sabbia fredda, compatta e ancora umida per la pioggia della notte. Con le mani infilate nelle tasche dei suoi pantaloni rossi si incamminò lentamente, persa nei suoi pensieri, con la testa leggermente chinata in avanti che ogni tanto si sollevava e si girava verso destra per ammirare quell’immensa distesa azzurra. Si trovava a migliaia di km da casa, in un luogo meraviglioso, isolato, che aveva mantenuto la sua originaria e selvaggia bellezza, tra dune di sabbia fine e chiara e sottili, lunghi fili d’erba mossi dalla leggera brezza marina. Gli unici suoni che giungevano fino a lei erano il sussurro del mare e il richiamo dei gabbiani. Si sedette ai piedi del faro, e guardò verso il largo, dove alcune barche di pescatori indugiavano ancora. Pensò a quegli uomini che ogni notte si spingevano verso un orizzonte invisibile, avendo come unico compagno un destino imprevedibile, pronti a sfidare o a ringraziare un mare che l’oscurità trasformava in un deserto liquido senza confini. Si volse verso il faro, pensando a ciò che quella luce significava per i pescatori, e con un sentimento di gratitudine seguì quel fascio luminoso proiettato verso il largo. Si lasciò trascinare, liberò la sua mente, e improvvisamente le sconfinate immensità marine si raccolsero e si trasformarono fino a diventare una piccola cucina, con un frigorifero nell’angolo, vicino alla finestra, e di fronte un lavandino, un piano di lavoro e il fornello a gas. In mezzo un grande tavolo, e seduta a questo tavolo una bimba, con gli occhi sgranati che osservavano le illustrazioni di un libro che parlava di uomini avventurosi, di marinai che governavano le loro navi in balia della furia degli elementi, di coraggiosi viaggiatori salvati, quando oramai tutto sembrava perduto, dalla lontana luce di un faro, di naufragi epici, di isole deserte e di altre imprese che solo la meravigliosa fantasia di una bambina poteva accogliere nella realtà. Provava a immaginarsi lei, piccola naufraga sperduta su un’isola disabitata, intenta a costruirsi la capanna per la notte o a pescare con il solo aiuto di un ramo appuntito trovato sulla spiaggia. Allora, sospesa tra il fascino misterioso e avvincente di quest’avventura e  un po’ di paura (davvero solo un po’?), alzava gli occhi fino a incontrare il sorriso e lo sguardo rassicurante di sua mamma, che da quel momento sarebbe stata tempestata di domande su come un uomo solo (e quindi figuriamoci una bimba!) poteva sopravvivere in condizioni così difficili. Poi, quando la sua sconfinata curiosità era stata soddisfatta dalle pazienti risposte materne, si alzava dalla sedia e si avviava tranquilla alla finestra. E da lì osservava gli alberi del suo giardino, guardava il bosco oltre il cancello della sua casa e immaginava la vita degli animali che lo popolavano, delle lepri, degli scoiattoli, dei conigli e degli uccellini, e come una splendida rondine si alzava in volo per migrare verso i luoghi magici della sua fantasia.

Quella bambina era oramai lontana ventisette anni dalla donna che una sera cercava un po’ di tepore in una fumante tazza di the  stretta tra le mani, mentre ascoltava il silenzio del buio interrotto ritmicamente dal ticchettio della pioggia. I suoi profondi occhi scuri e la sua mente persa su  intricati sentieri seguivano il lento scorrere di una goccia sulla finestra; nell’istante che aveva segnato contemporaneamente la fine di un lunghissimo volo iniziato chissà dove nelle profondità del cielo e l’inizio di un altrettanto misterioso e imprevedibile cammino terreno, quella goccia, unica tra  milioni di altre, aveva toccato un punto preciso del vetro, e da lì aveva iniziato a scivolare lentamente verso un destino ignoto. E ora, immobile su quella superficie trasparente, sembrava in attesa dell’evento che avrebbe determinato quale direzione, tra le infinite possibili, avrebbe dovuto prendere. Lasciò quella goccia, e, sempre stringendo il suo the, si immerse nel solitario silenzio della sua casa e si sedette sul divano. Guardò i contorni della realtà sfumare e fluttuare dietro il fumo che saliva dalla tazza, come un paesaggio che si riusciva solo a indovinare dietro un leggero velo di foschia. Chiuse gli occhi, e il sipario del tempo si alzò su un ricordo che nella memoria incominciava a perdere la sua originale nitidezza, ma che nelle emozioni rimaneva vivo e presente, un ricordo fatto anch’esso di foschia: quella che l’aveva accolta al risveglio una mattina d’estate di due anni prima e che le impediva di vedere con chiarezza, dall’alto della collina su cui si trovava, la piana e la città di Santiago de Compostela. Davanti a lei, a poca distanza, con i muri ancora bagnati dalla pioggia della notte, c’era, finalmente, la meta del suo cammino: la Cattedrale. Aveva camminato per settimane, sotto il sole cocente come sotto la pioggia battente, abituandosi ad avere  come unico traguardo visibile l’orizzonte, un orizzonte nuovo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto; aveva sentito, affrontato e superato la stanchezza, la fatica e i dolori alle gambe; si era massaggiata le spalle fiaccate dallo zaino; aveva imparato a chiedere alla propria volontà la forza per superare prove ogni giorno diverse, al proprio fisico di adattarsi a nuovi ritmi, e alla sua mente di essere abbastanza libera e aperta; aveva imparato che fare anche solo un piccolo passo in più può essere una grande conquista. Quella mattina, quando vi arrivò,  la splendida piazza della cattedrale era ancora quasi deserta: solo un altro piccolo gruppo di pellegrini stava raggiungendo la sua meta, intonando canti che contribuivano a rendere l’atmosfera carica di fede e di sincera devozione. Si sentì pervadere da sensazioni e da emozioni intensissime, profonde, che la presero allo stomaco, al cuore, alla gola. Le si inumidirono gli occhi, e quando entrò nella Cattedrale semibuia le parve che il tempo e lo spazio avessero spezzato i vincoli entro i quali gli uomini cercano di ingabbiarli; si sentì sospesa in una vertigine di immensità, come un piccolo granello di polvere sospeso in aria, di cui non ci si accorge fino a quando viene illuminato da un raggio di sole che filtra attraverso una finestra. Si sentiva parte di un qualcosa troppo grande per la sua finitezza umana, ma sapeva che era proprio questo a dare un senso alla sua vita e al suo essere, questo oltre da sé, questo al di là della sua percezione umana e materiale.

Non sapeva dire quanto fosse durata questa sua sensazione, ma, ne era certa, mai avrebbe dimenticato quell’attimo infinito.

Quando uscì dalla chiesa si sedette su una pietra del porticato, di fronte alla meravigliosa facciata di quella famosa meta di pellegrinaggi.  Sfiorò con le dita la conchiglia bianca che aveva legato al suo zaino, e la fatica dei giorni precedenti le sembrò lontanissima. Adesso la piazza era colma di turisti ansiosi di immortalare tutto ciò che vedevano sulla pellicola della loro macchina fotografica, e i pellegrini che ancora arrivavano facevano quasi fatica ad aprirsi un varco per procedere nel loro cammino. Non poteva non colpire la differenza tra quelle persone che ora sembravano camminare fianco a fianco. L’uno perfettamente vestito, con gli abiti pulitissimi, rasato di fresco, tanto che anche da lontano si poteva quasi immaginare il profumo di dopobarba della sua pelle. L’altro con le scarpe infangate, con le spalle leggermente ricurve sotto il peso dello zaino e con la barba ispida, di qualche giorno; l’uno con l’espressione svagata e gli occhi che tentavano di racchiudere in uno sguardo superficiale l’intera piazza, l’altro assorto nei suoi pensieri con gli occhi colmi della luce della gratitudine.

Occhi profondi, scuri, luminosi, splendidi, come quelli che più di una volta, nelle sue estati da adolescente, aveva visto chini su di lei nel delicato e affettuoso gesto di svegliarla. Allora la sua parte razionale un po’ si ribellava all’idea di doversi svegliare così presto, a un’ora in cui la luce del giorno aveva da poco vinto la sua eterna, giornaliera battaglia con il buio della notte, tanto più che quella levataccia era solo il preludio a una dura camminata su qualche impervio sentiero alpino. Ma c’era qualcosa di affascinante nel silenzio che regnava incontrastato a quell’ora, c’era qualcosa di inspiegabilmente attraente nella freschissima e profumata aria mattutina dalla quale si faceva piacevolmente accarezzare quando apriva la finestra della sua camera. Le vette che circondavano la valle, il torrente che mormorava non lontano dalla casa, il prato e tutto il paesaggio assumevano un aspetto e un significato diverso sotto quella timida luce mattutina: era come se tutto si svelasse ai suoi occhi per la prima volta. Poi, dopo essersi vestita, scendeva in cucina a fare colazione. Già sulle scale veniva circondata dall’aroma del caffè, dal profumo del latte e del pane fresco, e già si immaginava quello che tra pochi secondi avrebbe visto: il tavolo apparecchiato con la tovaglia bianca e verde, con le tazze, le posate, la marmellata, il burro freschissimo, lo zucchero. Durante tutto l’anno le sue colazioni erano una consumazione veloce di una tazzina di caffè e di qualche biscotto; qualsiasi cosa in più l’avrebbe considerata una perdita di tempo. Ma in quelle mattine, quando già una sottile eccitazione per la camminata che avrebbe intrapreso iniziava a insinuarsi dentro di lei, il calore, il senso di familiarità e di confidenza che la circondavano erano qualcosa di prezioso e insostituibile, qualcosa che le scaldava il cuore e che le faceva schiudere le labbra in un sorriso. Ad aspettarla, seduto al tavolo, c’era suo zio, che oramai da molti anni abitava in quella casa immersa nel verde e nella pace di una valle alpina. Aveva visto subito negli occhi di quella sua giovane nipote lo stesso desiderio che si poteva leggere nei suoi: mettersi in cammino, un passo dopo l’altro, senza la fretta che ci impedisce di contemplare, per cercare continuamente il proprio sentiero. Forse lei era ancora troppo giovane per accorgersene; del resto anche lui l’aveva scoperto in se stesso solo più  tardi. Sentì allora il desiderio e la gioia di potere accompagnare quella ragazza verso il suo futuro, sui sentieri e sulle vette a lui care, cercando di spiegarle, senza troppe parole, che ciò che rendeva splendido il cammino non era solo trovarsi in vetta, ma raggiungerla, passo dopo passo, godendo innanzitutto del sentiero che si stava percorrendo. Quando un pomeriggio, su una delle tante vette che raggiunsero, la vide particolarmente rapita dal meraviglioso panorama che si apriva davanti ai loro occhi, decise di spiegarle che nessun paesaggio poteva essere talmente bello e insuperabile da poterla spingere a interrompere il suo cammino. Ciò che vedevano da quella cima era certamente splendido, ma ognuna delle altre vette che vedeva da lì poteva essere una porta da spalancare su paesaggi e su emozioni altrettanto splendide. Le parlò degli istanti in cui si sente scoccare dentro di noi quella scintilla d’eternità che illumina le nostre vite, istanti in cui nella corazza del nostro limite umano si apre una piccola crepa dalla quale, anche se solo per un brevissimo e inafferrabile istante, il nostro essere sembra espandersi fino all’infinito.Vide negli occhi della nipote un misto di stupore e incredulità, e allora le disse che tutte quelle cose le avrebbe capite fino in fondo solo quando, un giorno, le avrebbe provate. Quelle parole di suo zio l’accompagnarono lungo il sentiero che dalla vetta scendeva verso valle, e da quel giorno divennero sue fedeli compagne di viaggio.

L’acuto richiamo di un gabbiano le fece alzare di scatto la testa. Serrò le palpebre, e quando le riaprì rivide il mare e i giochi dei gabbiani in un cielo che oramai era diventato completamente chiaro, dominato dalla luminosità del sole. La forza dei ricordi l’aveva trasportata indietro nel tempo, con un’intensità tale che  era riuscita a sconvolgerne il naturale scorrere: non aveva semplicemente ricordato, aveva vissuto. Come le era già capitato altre volte, il momento, l’atmosfera e i luoghi nei quali si trovava avevano avuto la forza di portarla verso la consapevolezza di se stessa, per poi sfumare perdendo i loro confini fisici. E quando la forza di un passato che tornava momentaneamente ad essere il suo presente la proiettava verso il futuro si diceva che non voleva sapere nulla del suo domani, ma preferiva scoprirlo giorno dopo giorno, e pensava che non voleva soluzioni, ma domande da porsi,  risposte e significati da cercare oltre le semplici apparenze, oltre la superficie degli eventi. Una cosa sola avrebbe voluto per il suo futuro: la capacità di vivere se stessa e il suo tempo in maniera pienamente consapevole. I ricordi, le emozioni e le sensazioni che aveva e che avrebbe vissuto erano troppo importanti perché appartenessero solo al passato; voleva che fossero sempre vivi nel suo presente, voleva che fossero parte di ogni suo oggi. Doveva assolutamente impedire che si trasformassero in ombre dai contorni sempre più sfumati, in pagine illeggibili, ingiallite dalla patina del tempo.

Lo scorrere delle sue riflessioni fu interrotto dal movimento di un piccolo granchio che procedeva con la sua tipica andatura nella direzione dalla quale lei era venuta. Vide le orme che i suoi passi avevano lasciato sulla sabbia che il sole stava lentamente asciugando, e  quando si voltò verso la sua auto notò che anche la sua amica era scesa, e ora, appoggiata al cofano, stava ammirando il paesaggio che la circondava. Avevano condiviso molti di quelli che le loro amiche definivano “lunghi e massacranti viaggi in auto”, preferendoli alle più modaiole vacanze sole-mare-spiaggia-relax, e si erano accompagnate vicendevolmente in quello che è il viaggio più importante per ogni essere umano.

Si alzò. Diede un’occhiata al faro oramai spento, lasciò che il suo sguardo spaziasse tra le infinità del mare e del cielo, e immaginò la sua figura vista dall’alto che rimpiccioliva fino a scomparire nelle immensità senza fine dello spazio. Si sentì come una piccola goccia di pioggia su un grande vetro, e percepì la gioia e la vertigine della libertà e della responsabilità di decidere, almeno in parte, il proprio destino; sarebbe stata capace lei, parte infinitamente piccola di quell’immensità, di usare questa libertà nel migliore dei modi? Respirò profondamente, e dopo aver lanciato un ultimo, lungo, intenso sguardo verso il mare si rimise in cammino.