UN CONTADINO ALLA GUERRA

 

 

 

Camminava nel fango, attento a non inciampare sul sentiero scosceso, la borraccia che gli batteva ritmicamente sul fianco. Tutta la colonna si muoveva cauta, nel silenzio ingigantito dal rumore dell'acqua, libera e ruscellante, che li accompagnava da ore. Talvolta un fruscìo nel sottobosco segnalava la presenza di un coniglio selvatico in fuga, o forse di una marmotta. Un penetrante odore di funghi giungeva fino a lui, mescolandosi all'afrore dei corpi sudati, spossati da un interminabile viaggio.

“Che cosa ci faccio qui?” Si ripeteva Anselmo ad ogni passo. “Io sono un contadino, sono un contadino!”

Queste parole gli martellavano in testa da giorni, ritmate prima dalle ruote del treno, e poi dal rumore dei passi, in una marcia estenuante di cui non conosceva la meta. Anselmo non aveva mai visto le montagne, se non da lontano, nelle giornate più limpide in cui il vento disperdeva la foschia che spesso gravava sui campi.

Nel salutarlo, al momento di partire, Elvira piangeva inconsolabile, come se lui fosse già morto e sepolto. Solo in un'altra occasione l'aveva vista versare così tante lacrime, quando suo zio, il vecchio pa' Gin, si era buttato dal fienile, con un unico, terribile grido, vedendo entrare il postino con la faccia mesta e il telegramma in mano. Per fortuna il fieno non era stato ancora scaricato dal carro, e il vecchio gli era piombato sopra, cadendo sul soffice senza rompersi le ossa. Ma il cuore sì, gli era andato in frantumi. Aveva urlato e bestemmiato il cielo e tutti i santi, e poi non aveva più pronunciato verbo, murato nel suo dolore, come se fosse sceso anche lui, assieme al figlio, nella fossa.

La colonna si fermò e Anselmo si sfilò lo zaino dalle spalle. Mentre addentava una galletta seguiva con gli occhi il volo di un falco. Roteava in larghi cerchi, sfruttando le correnti aeree. Certo da lassù tutti loro, italiani e crucchi, gli sarebbero sembrati ugualmente insignificanti, niente di più che degli intrusi nel suo regno. Riempì la borraccia ad una piccola cascata, invidiando quell'acqua che libera e gorgogliante scendeva a valle, scorrendo inarrestabile verso la pianura. Accostò per un attimo al viso che scottava il metallo freddo della borraccia, poi la rigirò tra le mani e si accorse di un'ammaccatura, propri al centro, quasi l'impronta di un pollice. Bevve infine, con calma, a lunghe sorsate che lo ritemprarono.

La colonna si rimise in marcia. Una freccia, formata da sassi ammonticchiati, indicava la direzione. Si erano lasciati alle spalle le foreste di pini e camminavano sulla roccia ormai, sferzati dal vento, aggirando il fianco della montagna.

“Chissà in quale direzione si trova la mia casa?” Si domandò Anselmo d'un tratto. Intorno a lui tutto gli pareva selvaggio e inospitale, e la nostalgia dei suoi campi, del filo di fumo che si alzava dai tetti di casa lo aggredì e si impossessò di lui. Le montagne lo opprimevano con la loro mole incombente: era un uomo di pianura, abituato agli orizzonti distesi, ai campi, dove nulla è più alto di un filare di pioppi, o di un campanile. E fu proprio il pensiero della sua vigna, delle sue bestie pacifiche nella stalla a dargli di nuovo coraggio. Così Anselmo affrontò la guerra, e le crudeli prove che lo aspettavano, sorretto dal pensiero della sua donna e della terra, alle quali doveva al più presto tornare, perchè lui altro non era che un contadino, un contadino mandato alla guerra.

  

                                 Dopo tre giorni di strada ferrata ed altri due di lungo cammino

                                 siamo arrivati sul Monte  Canino e a ciel sereno ci tocca riposar

 

Qualcuno aveva intonato il solito canto che, a poco a poco, percorse tutta la colonna

 

                                 Se avete fame guardate lontano, se avete sete la tazza alla mano

                                 se avete sete la tazza alla mano,che ci rinfresca la neve ci sarà

 

Verso l'imbrunire cominciarono ad incontrare qualche soldato che scendeva per il sentiero in senso inverso al loro, a cercare legna o acqua. Tutti avevano un aspetto lacero e stremato, qualcuno era avvolto in bende. La colonna arrivò al campo, si inoltrò nelle trincee.

Completate le formalità dell'arrivo, Anselmo raggiunse il posto che gli avevano assegnato per la notte. Per distogliere gli occhi dallo squallore che aveva intorno, si costrinse a fissare il cielo, così carico di stelle da procurare la vertigine. Infine si tirò la coperta sulla testa e soffocò nel buio lo scoramento che gli artigliava il cuore.

 

                                 Non più coperte, lenzuola, cuscini.

                                 Non più l'ebbrezza dei dolci tuoi baci,

                                 solo si sentono gli uccelli rapaci,

                                 e da lontano il rombo del cannon...

 

Il vecchio canto militare risuonava nella sua testa e lo accompagnava mentre saliva, passo dopo passo, sul sentiero appena accennato. Ci voleva un intero giorno di arrampicata per raggiungere le trincee della Grande Guerra, eppure Carlo doveva tornarci almeno una volta l'anno. Partiva che era ancora notte, lasciava l'auto sul piazzale della cascata e cominciava a salire alle prime luci. Camminava con metodo, disciplinato e silenzioso, fino alle malghe, dove si fermava a prendere fiato. Le prime volte qualcuno l'aveva accompagnato, ma da qualche anno ci saliva da solo.

“E' sempre la solita arrampicata sfiancante. Cosa ci vai a fare tutti gli anni?”

Carlo non rispondeva, limitandosi ad alzare le spalle. In realtà nemmeno lui sapeva che cosa lo attirasse su quei pendii aspri, dove l'aria era tagliente e il vento fischiava quasi in permanenza.

Non lo sapeva, ma ci andava ugualmente, come se ubbidisse ad un misterioso richiamo.

Superate le malghe, il sentiero diventava a malapena visibile, ma l'occhio esercitato di Carlo lo individuava facilmente, nonostante gli smottamenti del terreno e l'incolta vegetazione.Si lasciava alle spalle i pascoli e saliva sicuro fino ad una piccola cascata.Lì, sedeva per un poco su un masso a respirare l'odore umido della terra e delle foglie, mentre i suoni familiari e tanto amati della montagna gli facevano compagnia. Infine raggiungeva le trincee, o quel che ne era rimasto, e si aggirava in quel luogo desolato, sentendolo ogni volta più suo.

Un giorno, mentre si apprestava a tornare, vide qualcosa tra i sassi. Si chinò e mosse cautamente la terra, finchè si accorse di avere sotto gli occhi una borraccia. La pulì dal terriccio e se la rigirò tra le mani, emozionato. Proprio al centro notò un infossamento, quasi l'impronta di un pollice, e all'improvviso, intenso come un dolore, avvertì un sentimento d'amore per l'uomo che l'aveva tenuta tra le mani prima di lui, e per tutti gli uomini che in quel luogo avevano sofferto.Si sentì fuori dal tempo, legato in una misteriosa continuità al destino del soldato sconosciuto che lì aveva perso la sua borraccia, e forse anche la vita. Poi la forte emozione sbiadì e Carlo tornò a valle con la borraccia nello zaino, sentendosi come un pellegrino che ha sciolto un voto, risanato.